C’è vita oltre l’amore romantico? Anche voi cercate la risposta a cena con amiche e amici, nei libri che leggete, nei film che vi piacciono, nelle serie tv che consumate e nelle canzoni delle artiste e degli artisti che cantate in coro ai concerti? Siete millennial alla soglia dei quarant’anni, senza relazioni stabili e senza figli (nemmeno sapete se li desiderate, e quando li desiderate non potete permetterveli), vivete lontani e lontane dalle famiglie di origine, la vostra rete di protezione sono le amicizie, qualche situationship finché dura? Siete da soli, ma non per forza vi sentite soli?
Musica da camera singola è il libro per voi. Pubblicato da Rizzoli nel 2023, è un libro autobiografico della scrittrice inglese Amy Key, che racconta l’esperienza di trovarsi single e senza figli intorno ai quarant’anni, in un momento catartico e di trasformazione della propria vita.
L’abbiamo scelto come ultima lettura dell’anno per il nostro bookclub in collaborazione con Ludovica Lugli e la libreria Verso di Milano; ne parleremo insieme il prossimo mercoledì 20 novembre dalle ore 19:00 in presenza in libreria o online. È un libro che, siamo sicure, parlerà a molte e molti di voi. Vi aspettiamo per discuterne: qui il canale Telegram dove spieghiamo come iscriversi all’incontro.
Oggi, grazie alla gentilezza e alla collaborazione della casa editrice Rizzoli, ne pubblichiamo un piccolo estratto.
Buona lettura!
Musica da camera singola di Amy Key (Rizzoli, 2023)
AMORE - Looking for something, what can it be
Un estratto da Musica da camera singola di Amy Key (Rizzoli, 2023)
Quando andai a Los Angeles agli inizi del 2020, da sola, un tassista mi chiese perché ero lì. Gli risposi che volevo scrivere qualcosa sulla cantautrice Joni Mitchell. Era bello avere una storia da offrire.
«Joni Mitchell, Joni Mitchell» fece il tassista. «Fammi pensare se conosco qualcuno che conosce Joni.»
Io non dissi niente.
«Aspetta, credo di avercela. Conosco la musicista Gillian Welch da vent’anni. Le faccio un colpo di telefono. Magari Gillian può mettervi in contatto e fartici parlare al telefono cinque minuti. Tieni, prendi il mio numero.»
Presi il numero anche se sapevo che non lo avrei chiamato. Ero attratta dall’idea di essere il genere di persona che lo avrebbe fatto. E anche se speravo davvero di scrivere qualcosa su Joni, non era lei il motivo per cui mi trovavo lì. Avevo programmato il viaggio prima che quell’idea mi venisse in mente. Ero lì per scrivere e pensare. Ma non mi aspettavo troppo da me stessa. Il mio amico e mentore di poesia Roddy era morto da un mese. Ero arrivata in città con un dolore che speravo potesse sciogliersi negli orizzonti sterminati della California. Speravo che la novità potesse spazzare via il dolore.
*
Blue di Joni Mitchell fa parte del mio mondo interiore da trent’anni. La mia copia in vinile si è progressivamente sformata per via dell’esposizione alla luce del sole, graffiata dalla mia sbadataggine con le custodie e le buste. Quando lo metto su, il disco suona come se venisse trasmesso dallo spazio, la musica propagata da un canale pieno di ronzii e distorsioni. L’ho usato così bene da fargli assumere la qualità di un luogo comune, in cui i salti e i graffi e le sbavature vengono accettati per via del legame di appartenenza che avverto col disco. Ma non ho bisogno di farlo partire per ascoltarlo. Posso cantarlo dall’inizio alla fine, con tutte le variazioni emotive e tonali, e spesso lo faccio. Riesco a rievocare ogni elemento della musica nella mia testa. Mia nonna paterna, Eva, mi diceva sempre: «Amy, sento la musica». Adoravo quella dichiarazione misteriosa. Adesso so cosa voleva dire. Usando il pensiero come strumento, suono spesso Blue per intero, senza neanche una pausa.
L’album uscì nel 1971, sette anni prima che io nascessi. Era il quarto disco di Joni, registrato a LA, dopo essersi presa un anno di pausa dai tour. Le canzoni di Blue contengono la potenza di quel tempo dedicato alla riflessione. Joni si stava già godendo il successo – Clouds vinse un Grammy come Best Folk Performance nel 1970 e Ladies of the Canyon, il disco prima di Blue, aveva venduto più di mezzo milione di copie. Ma Blue eclissò tutti i successi precedenti. Il modo in cui tratteggia l’amore, la perdita e la nostalgia divenne una pietra miliare per milioni di persone in tutto il mondo, accompagnandole in molte stagioni della vita. È il genere di disco che si fa ascoltare all’altra persona nelle prime fasi di una relazione per esprimere sentimenti importanti. La cui copertina viene incorniciata e appesa al muro. I cui versi ispireranno un tatuaggio. Un album che si eredita emotivamente da altre persone. Ancor prima di sentire le sue canzoni, avevo accettato il dato di fatto che Joni fosse una musicista importante, parte del canone della musica popolare proprio come Prince, i Beatles, Diana Ross, Kate Bush. Non so da cosa nacque questa sensazione, ma sapevo per istinto che un giorno avrei trascorso del tempo in compagnia delle sue canzoni. Che avrei deciso se Joni sarebbe stata il canone, per me.
Ripenso al 1992 e alla prima volta che ho sentito Blue. Alla mia migliore amica erano venute da poco le mestruazioni e in quei giorni aveva il ciclo. Era rimasta a dormire da me, nel letto a scomparsa sotto al mio. Lo chiamavamo «la tavola da surf». La lampada astro rossa e viola era accesa, le altre luci spente. Ascoltavamo la musicassetta presa in prestito da mia sorella maggiore, Rebecca. Un’eredità emotiva.
La prima canzone è All I Want. Nel bozzolo buio del nostro pigiama party, Joni cantava «I am on a lonely road and I am travelling, travelling, travelling, looking for something, what can it be?», sono su una strada deserta e vado avanti, vado avanti, vado avanti, cerco qualcosa, cosa può essere? Ricordo che provai una strana sensazione, un’esaltazione vicinissima all’ansia, un senso fisico che anche io avrei provato qualcosa di trasformativo, e presto. Mi unii a Joni sulla strada che stava percorrendo. Sapevo che non mi sarei addormentata finché la cassetta non avesse fatto clic sul lato b e non avessi sentito l’ultima nota dell’ultimo pezzo.
Nei ricordi di quella sera, la lampada astro era come il dolore provato dalla mia amica, lo stesso pulsare rosso e incandescente. Il dolore come un’energia rossa, ipnotica. Il dolore che si muove come un polpo nei profondi oceani dell’essere donna e della sofferenza romantica; soglie che dovevo ancora attraversare. Avevo quattordici anni e bramavo dalla voglia di nuotare in entrambi.
Quella notte Blue accese il mio desiderio e la mia ambizione all’amore romantico, formò la mia idea di come avrei premuto il cuore contro il mondo. Credo che ad affascinarmi fosse il modo in cui descriveva gli intrecci complessi dell’amore. Era la prima rappresentazione di quel sentimento ad apparirmi sincera: l’amore come la cosa migliore e peggiore che potesse capitarti, gioia e sofferenza. Avrei fatto del male a qualcuno. Qualcuno ne avrebbe fatto a me. L’amore significava restare e andare, una compresenza improvvisamente chiara. E non doveva rappresentare per forza la convenzione, forse neanche il matrimonio o i figli. I drappeggi armonici della musica, con tutti i loro alti e bassi diffusi, mappavano la direzione che io e l’amore romantico avremmo preso. Blue mi offriva una tavolozza intera, per dipingermi in tutte le possibilità della vita. Assorbii e feci mia la gamma emotiva del disco, e divenne qualcosa di innato. Accettai Blue come parte del linguaggio in cui dovevo esprimere me stessa.
Nelle mie prime cotte e relazioni, mettevo a confronto i sentimenti che provavo con quelli di Blue, come se il disco fosse una scala dell’intensità imprescindibile, utile a rilevare se un amore aveva senso e sostanza oppure no. Era abbastanza forte da impedirmi di anestetizzarlo col vino? Aveva la stessa tenacia della stella polare? Riusciva a tenere a bada la mia malinconia? Mi avrebbe ancorata a terra, o mi avrebbe fatto salpare lontano? Riflettendoci adesso, forse mi ero ingannata nel voler credere che quasi tutti i miei rapporti romantici potessero misurarsi con la scala di Blue. Accettavo che l’amore mi avrebbe fatta soffrire, al punto tale che l’amore felice non divenne un’aspettativa, ma un dono occasionale. Amare significava essere disposta a perdere sangue. Ero pronta.
Ma anche se ho perso molto sangue per amore, mi sono ritrovata quasi sempre a vivere senza. L’ultimo ragazzo l’ho avuto a ventidue anni. Sto per compierne quarantaquattro. Negli anni in cui scoprii Blue credevo di essere dinanzi alle prime avvisaglie dell’amore nella mia vita. Ogni inizio contiene una potenziale fine, ma non sapevo quanto ci sarei arrivata in fretta.
A volte leggo i miei diari adolescenziali nel tentativo di trovare una soluzione alla mancanza di amore nella mia esistenza o quantomeno degli indizi sul perché le cose sono andate in questo modo. Quali idee e comportamenti fecero presa allora, e possono fornirmi le chiavi per comprendere meglio me stessa? Mi ha turbato leggere la passività con cui rispondevo al desiderio di un’altra persona verso di me, come se l’attrazione fosse qualcosa a cui ero soggetta anziché una faccenda reciproca. Era come se fossi posseduta dall’idea dell’amore come dolore squisito più che gioia. E avrei preferito il dolore, l’inganno – persino gli abusi –, all’essere sola. In una pagina scrissi: «Persino essere usata sarebbe meglio di questo», dove «questo» stava per l’assenza di romanticismo. I miei diari dell’epoca svelano una ragazza che muore dalla voglia di avere una relazione, intenta a trascrivere se è stata notata oppure no dai suoi oggetti del desiderio, pagina dopo pagina. C’è poco altro: nessuna intellettualizzazione, solo fitte di desiderio.
Amy Key è cresciuta nel Kent e vive a Londra, dove lavora come scrittrice e poetessa. Le sue raccolte Luxe e Isn’t Forever sono state nominate libri dell’anno da The Guardian, New Statesman e The Times. Musica da camera singola è il suo primo romanzo.
Una rassegna un po’ diversa dal solito
Per questa newsletter abbiamo deciso di raccogliere alcuni spunti tra libri, film, serie tv ed articoli che ci hanno fatto pensare, in qualche modo, ai temi trattati da Amy Key nel suo Musica da camera singola. E non potevamo che iniziare consigliandovi di riascoltare il disco Blue di Joni Mitchell, quarto album della cantautrice canadese pubblicato nel 1971, di cui si parla proprio in questo libro.
LIBRI
Bluets di Maggie Nelson, nottetempo
I miei tre papà di Jessa Crispin, edizioni Sur
Tutto quello che so sull’amore di Dolly Alderton, Rizzoli
La figlia unica di Guadalupe Nettel, La nuova frontiera
Maternità di Sheila Heti, Sellerio
ARTICOLI
Da quando i millennial hanno iniziato ad avere quarant’anni, le loro crisi esistenziali sembrano molto meno cool.
Con l'evolversi dell'economia, è tempo di abbracciare nuove idee sul romanticismo e sulla famiglia, e di riconoscere la fine del matrimonio “tradizionale” come massimo ideale della società.
Single, felici e sani: è possibile.
Scegliere la solitudine per sentirsi più appagati.
Perché essere single e senza figli fa così tanta paura alle persone che ci circondano?
DA VEDERE
La terza stagione di Master of None di Aziz Ansari e Alan Yang (su Netflix)
Girls, serie creata da Lena Dunham (su NOW)
Frances Ha, film del 2012 diretto da Noah Baumbach (su Prime Video)
PODCAST
Alone: A Love Story esplora la solitudine e l'autosufficienza dopo la fine di una relazione, affrontando temi di amore e indipendenza.
Single and Mighty si concentra sull'essere single e sull'empowerment che deriva dalla scelta di vivere da soli.
The Single Life Podcast offre storie e riflessioni di persone che vivono una vita soddisfacente da single e senza figli.
A presto,
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