A volte i libri creano delle connessioni involontarie, e capita che pagine distantissime per epoca, geografia e genere si parlino nella testa e nei cuori dei loro lettori. Nella mia (qui Giulia C.) è successo recentemente con Tangerinn, esordio di Emanuela Anechoum per le edizioni e/o.
È la storia di Mina, ragazza trentenne che vive a Londra, dove conduce una vita calcolata al millimetro per sentirsi “giusta”, lontana dal piccolo paese sul mare del sud Italia in cui è nata e cresciuta. Una sera riceve una telefonata da casa: il padre è morto. Mina è costretta a tornare a casa, a fare i conti con i rapporti famigliari lasciati in sospeso (una sorella poco ambiziosa, la madre assente, una nonna inscalfibile) e a tornare in quel bar che è stato la libertà del padre. Qui Omar, arrivato dal Marocco, aveva creato una comunità per gli eterni immigrati come lui.
Tangerinn è un libro che pone molte domande: cosa dice di noi il luogo in cui siamo nati? Dove risiedono le nostre radici? Quale posto possiamo chiamare casa? Ma anche, cosa rappresentano per noi i legami di sangue? Quanto possiamo correre lontano dal nostro passato e dal nostro destino? Chi siamo quando non siamo visti? Chi erano i nostri genitori prima di noi? E cosa saremo noi dopo di loro?
Tangerinn è anche il libro che abbiamo scelto per il prossimo appuntamento del bookclub alla libreria Verso di Milano il 19 giugno dalle 19:00 (per sapere come partecipare, c’è un gruppo Telegram dedicato in cui spieghiamo tutto). Ho sorriso quando ho iniziato il romanzo e in epigrafe ho trovato una citazione da L’isola di Arturo di Elsa Morante: Morante è l’autrice di cui abbiamo parlato nell’incontro precedente. Ho pensato che non fosse un caso.
Nella newsletter di oggi, per gentile concessione dell’editore, vi lasciamo un estratto del romanzo di Emanuela Anechoum.
Buona lettura!
Un ospite dell’hotel El-Muniria e del bar The Tangerinn a Tangeri negli anni Ottanta
Un estratto da Tangerinn
di Emanuela Anechoum (edizioni e/o, 2024)
Quel primo giorno apparve lì sulla porta come tutto ciò che avrei sempre voluto essere: magra, sinuosa, capelli rossi e spessi, la pelle bianchissima. Si muoveva per l’appartamento scalza, con la facilità di gesti tipica delle persone nate ricche; indossava una vestaglia rossa con dei fiori bianchi ricamati, che serpeggiava sfiorando il pavimento, le maniche a pipistrello, un bicchiere di vino in mano e una canna nell’altra. Non aveva un pelo fuori posto, il viso era costellato di efelidi. Mi abbracciò come se fossimo già sorelle, e mi invitò a lasciare le scarpe fuori dalla porta prima di entrare. Le chiesi dove avesse comprato quella splendida vestaglia, lei mi rispose che era in seta biologica.
Liz aveva ereditato la casa da sua nonna, una signora inglese molto a modo tranne quando beveva, che aveva avuto l’accortezza di morire a settant’anni in modo che l’amata nipote non dovesse mai preoccuparsi dell’affitto. Le aveva lasciato anche parecchi soldi. Queste cose me le disse con tono allegro mentre mi mostrava le varie stanze. Io seguivo a stento il flusso delle sue parole e con un inglese barcollante le chiesi: E i tuoi? Ma lei non sentì.
Aveva sapientemente accostato l’arredamento ereditato, un po’ démodé, a pezzi moderni e minimalisti: vasi, lampade e tappeti dai colori terrosi e discreti, forme morbide e una quantità spropositata di piante. Era molto brava a maneggiare la bellezza, le veniva naturale, perché la percepiva come parte di sé. Fu la prima cosa che mi attrasse di lei.
La camera che affittava era piccola e buia, con macchie di muffa agli angoli, piena di oggetti deliziosi che non servivano a niente: ceramiche informi, una bottiglia di vetro con dentro della lavanda secca, un mandala comprato da Urban Outfitters appeso alla parete, uno scendiletto verde scuro a forma di coccodrillo. Mi soffermai appena su quei particolari, sapevo che avrei fatto qualsiasi cosa per vivere lì, ero già irrimediabilmente invischiata in Elizabeth, nelle sue movenze, nel suo parlare sognante e allo stesso tempo attento, consapevole dell’effetto che la sua aura aveva sull’ambiente circostante. Non conoscevo ancora la differenza fra ciò che si è e ciò che gli altri vedono, e per molto tempo rimase viva in me la convinzione che Liz fosse, semplicemente, perfetta. Lei al contrario non sembrava colpita da me, dovevo sembrarle così provinciale. Non sapevo cosa fare per stupirla e avevo paura che il desiderio di approvazione traspirasse dalla mia pelle come sudore intriso di disperazione.
Qualche minuto dopo eravamo sedute nel giardino, un quadrato di prato umidiccio ma deliziosamente decadente. Liz aveva preparato un piccolo questionario per decidere se fossi o meno la persona adatta a dividere con lei l’appartamento, e quindi un po’ anche il tempo e la vita. Come in tutte le grandi città, la vicinanza era una componente fondamentale dei rapporti. Su Tinder si cercava l’amore nel raggio di un paio di chilometri – era quello il metro con cui si misurava l’intimità, in una routine in cui il barista italiano del Queen’s Head, il pub all’angolo, diventava saltuariamente il mio amante, talvolta il mio terapista, spesso mio padre. Non credo sapesse come mi chiamassi – mi diceva: Are you alright, love?, e io mi sentivo speciale.
Che tipo di persona sei?, mi chiese Liz, fissando il foglio.
Fino a quel momento non avevo risposto bene alle sue domande: non avevo visto i telefilm di cui parlava, non leggevo granché e non ascoltavo podcast, non avevo viaggiato. Tutto ciò la atterriva.
Non lo so ancora, risposi. Una vulnerabilità che avrei presto imparato a nascondere, ma che le piacque. Mi guardò con nuovo interesse.
Il tuo cognome non sembra italiano, commentò. Mio padre è marocchino.
Oh, cool!, esclamò, con un’energia che nascondeva forse un filo di rancore, come se non se lo aspettasse proprio da una come me. Io voglio avere dei figli misti, affermò, l’ho già deciso. Voglio innamorarmi di uno chef nordafricano che vive a Parigi, così potremo prendere il treno per vederci nel week-end, mantenendo ognuno la sua vita, perché io non posso sradicarmi per un uomo. Sarebbe perfetto, perché così i figli crescerebbero trilingui, con l’arabo e il francese, e poi tutti sanno che i meticci sono naturalmente più attraenti della gente normale, guarda Zendaya o Lenny Kravitz. Hai mai letto Zadie Smith? Tu parli arabo e francese, immagino. Dovremmo assolutamente organizzare un viaggio in Marocco. Ci sono stata un milione di volte, una mia amica ha una villa a Marrakech, però sarebbe bello visitarla con qualcuno che conosce bene i posti più autentici, ormai anche lì il turismo si è mangiato tutto, i luoghi si snaturano per rendere ogni cosa più instagrammabile per noi bianchi. È agghiacciante se ci pensi. Tu vai spesso, immagino, la tua famiglia è ancora lì? Io ho origini scozzesi e tedesche, la prima volta che sono stata a Berlino ho sentito un senso di appartenenza così intenso che mi sembrava di stare nascendo di nuovo. Capisci che intendo?
Non le dissi che no, non capivo cosa intendesse perché io in Marocco non ci avevo mai messo piede e non parlavo né arabo né francese, perché non avevi avuto il tempo di insegnarmelo, perché lavoravi sempre e la vita era già abbastanza difficile così. Sono un’alleata, mi rivelò, e io non capii. Intuii però che per essere sua amica non c’era bisogno di parlare molto, e la cosa mi confortava. Mi mise in mano un bicchiere di vino, voleva sapere tutto di me, mi disse, e per fortuna m’interruppe quasi subito. Era gentile, generosa, bella, ricca e potente, e io non riuscivo a credere che avesse scelto me.
Mi chiedo ancora cosa la convinse, in quel primo incontro, che saremmo diventate migliori amiche. Conoscevo tante ragazze bianche e ricche nel piccolo paese da cui venivo, e nessuna di loro aveva visto in me un progetto su cui investire il proprio tempo. Liz invece sì – voleva occuparsi di me come di uno specchio rotto: ricompormi, smussarmi, lucidarmi, così che potessi riflettere la sua immagine. Anch’io desideravo questo. Voleva farsi vedere con me nei locali di Soho dove persone interessanti incontrano altre persone interessanti, e io desideravo farmi vedere al suo fianco, nei posti dove è importante esser visti. Voleva consigliarmi cosa guardare, cosa mangiare, spiegarmi cosa fosse giusto e cosa no. Era sempre disponibile a spiegarmi le cose, a illustrarmi aspetti del mondo che non conoscevo. Mi parlava di femminismo e di come questo si collegasse alla lotta di classe, e mi prestò dei libri da leggere che non mi facevano sentire stupida come a scuola. Ero felice di imparare. Mi portava con sé alle mostre di nuove artiste afrodiscendenti e ai concerti in cui donne tristi cantavano canzoni struggenti e tutte le ragazze ondeggiavano al ritmo della sorellanza. Pagava sempre lei, io la seguivo, grata. Mi incoraggiava a informarmi, mi rimproverava se facevo osservazioni poco sensibili nei confronti di questa o quella minoranza, finché non smisi di farle. Mi presentò le sue amiche, mi strappò alla vergogna della mia evidente solitudine. Mi regalava i vestiti che non usava più, e quando cenavamo fuori offriva lei il vino perché, diceva, così prendiamo una bella bottiglia. Io stavo molto in silenzio, per apparire più intelligente – ma nel silenzio mi sembrava di cambiare. Liz mi ricordava continuamente che dovevo aspirare a essere la versione migliore di me stessa, mentre io sognavo di diventare lei, e mi piaceva pensare a come mi sarei sentita allora: al sicuro e felice.
A pensarci adesso, mi rendo conto che Liz viveva sospesa in un’eterna adolescenza fatta di privilegio e finta ribellione. Il suo egoismo era l’individualismo naturale della vita di città: necessario a sopravvivere, non poteva essere considerato un difetto. Tutto di lei sembrava dire io sono, senza doversi mai scusare, mai chiedere permesso, mai mettersi in discussione. Non avevo mai immaginato che si potesse vivere così e ora lo desideravo, osservandola sorridersi allo specchio. Mi chiedo adesso come fosse quando nessuno la guardava, ma è una domanda sciocca, perché ognuno esiste solo quando è visto, e lei faceva in modo di non passare mai inosservata.
*
A volte le pisciavo nel balsamo per capelli e poi lo scuotevo forte. Non era un gesto cattivo, mi dicevo, i suoi capelli non sembravano subire alcuna conseguenza, ma io per qualche motivo ne ricavavo uno strano senso di benessere. Cercavo goffamente di bilanciare i pesi invisibili che mi costringevano sempre sotto di lei. Facevo anche altre cose, tipo riempire il brick del suo latte di soia con il latte normale, a cui lei diceva di essere allergica – la vedevo correre in bagno poco dopo con le mani sulla pancia. Ma non era un gesto cattivo, mi dicevo, perché le passava subito. Una volta la accompagnai a fare shopping e man mano che mi porgeva le cose dal camerino – le stavano tutte bene, le avrebbe comprate in blocco – con la scusa di aspettarla alla cassa correvo a cambiarle prendendo una taglia più piccola. Mi chiedevo perché, mi pentivo, mi sentivo in colpa, pensavo: è tua amica, non puoi odiarla. Ma io invece la odiavo, la odiavo perché le invidiavo tutte quelle cose che pensava di meritare solo perché le possedeva: la sua pelle, la sua casa, la sua sicurezza. Allo stesso tempo era fondamentale che lei mi amasse, perché era a lei che volevo somigliare, era lei che volevo stupire. Non avevo mai avuto un’amica prima e le sue attenzioni divennero presto qualcosa senza cui non credevo di poter vivere.
In alcune occasioni mi infilavo nel suo letto e dormivamo insieme abbracciate – in quei momenti lei si comportava come una bambina, mi sussurrava con voce acuta che aveva paura del buio e che era felice che io fossi lì con lei. Mi faceva sentire parte di un gioco segreto fra noi due. Ci rifugiavamo l’una nell’altra, al sicuro dalla solitudine ma anche dal rischio di un’intimità reale, che ci guardavamo bene dal cercare. Le conversazioni fra noi erano sempre interessanti e mai pericolose. Non parlavamo dei nostri genitori o della nostra adolescenza triste. Io non conoscevo le sue insicurezze, lei ignorava le mie. Eravamo sole insieme, al riparo dalle nostre ombre.
A volte ci toccavamo. Il suo corpo mi affascinava, mi chiedevo perché fosse così diverso dal mio. Mi sembrava più bello. Non so perché lei lo facesse – forse anche lei voleva esser parte di qualcosa, in fondo, forse anche lei stava cercando un rifugio in cui nascondersi.
Emanuela Anechoum è nata a Reggio Calabria nel 1991 e vive a Roma. Dopo gli studi ha iniziato a lavorare nel mondo dell’editoria a Londra, e successivamente si è trasferita in Italia. Ha scritto per Vice, Doppiozero, Marvin Rivista. Tangerinn è il suo primo romanzo.
Cose belle che abbiamo letto in giro
Sono giorni di G7 nel nostro Paese e una questione sta tenendo banco: il governo è infatti accusato di aver chiesto l’eliminazione del termine "aborto" dalla bozza del documento sulle conclusioni finali del summit (il testo deve ancora passare all'esame finale dei leader).
Rifarsi le tette è di moda tra le ragazze?
Il 18 giugno esce un piccolo, ma interessante libro per Feltrinelli Gramma: Nelle strade di Teheran di Nila. L’autrice ha scelto di usare uno pseudonimo per proteggersi dalla censura e dal regime iraniano.
La stilista Elisabetta Franchi è stata condannata per le frasi che aveva detto sulle donne con più di 40 anni.
L’idea di coppia è in crisi ma per alcuni è già morta, scrive Ester Viola.
Tutto quello che la moda deve a Françoise Hardy (morta l’11 giugno a 80 anni).
La nuotatrice trans Lia Thomas non potrà gareggiare alle Olimpiadi di Parigi.
Come si diventa alcolisti?
Al cinema è arrivata la seconda parte della serie tv L’arte della gioia diretta da Valeria Golino. E un film tratto dal romanzo di Ottessa Moshfegh.
Due appuntamenti da Verso libri, a Milano: martedì 18 giugno la nostra Giulia P. partecipa a una rilettura collettiva delle poesie di Patrizia Cavalli; mentre mercoledì 19 vi aspettiamo, come abbiamo raccontato in questa newsletter, per un nuovo appuntamento del bookclub di Senza rossetto.
All’inizio degli anni Sessanta Gabriella Parca e la sua collaboratrice Maria Luisa Piazza si misero in viaggio per l’Italia intervistando più di mille uomini di diverse età e condizioni sociali. A loro rivolsero domande inaudite per l’epoca ed è così che è nato I sultani. Un’inchiesta oggi ripubblicata da Nottetempo con una prefazione a cura di Ludovica Lugli. Ne parleremo con lei il 3 luglio alle 19 alla Libreria del Convegno di Milano.
A presto,
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