Eccoci qui, un’altra estate è finita e ci avviamo verso l’autunno. Come state?
Il nostro settembre è iniziato a Mantova, quest’anno siamo state ospiti di Festivaletteratura, dove abbiamo avuto l’occasione di conversare con molte autori e autrici che scrivono di temi vicini a Senza rossetto (tra gli altri abbiamo incontrato la scrittrice canadese Mona Awad e parlato delle inchieste sul rapporto tra generi della giornalista Gabriella Parca con Carolina Bandinelli e Davide Coppo): un bel modo di salutare l’estate e reimmergerci nelle riflessioni e le conversazioni che questo spazio ci consente di fare.
Per dare avvio alla newsletter dopo la pausa estiva abbiamo deciso, grazie anche alla disponibilità di Festivaletteratura e della casa editrice Sur, di riportarvi un estratto della conversazione che la nostra Giulia P. ha avuto con Jessa Crispin, scrittrice e attivista statunitense, a partire dal suo ultimo saggio I miei tre papà (Sur, 2024). Crispin è un’opinionista molto famosa negli USA, si occupa di diritti delle donne, femminismi e diritti civili, ed è nota per le sue posizioni radicali e critiche nei confronti del femminismo mainstream contemporaneo (espresse soprattutto nel suo pamphlet del 2017 Perché non sono femminista).
Curioso che molti dei temi che Crispin e Giulia hanno toccato in questa conversazione siano anche analizzati nel prossimo libro che leggeremo durante il nostro bookclub alla libreria Verso di Milano (siamo tornate anche qui!): Musica da camera singola di Amy Kay (Rizzoli), un saggio personale in cui l’autrice riflette sull’esperienza di ritrovarsi single e senza figli a quarant’anni. Ne parleremo entro la fine dell’anno, presto comunicheremo la data precisa sui nostri social e sul canale Telegram dedicato al gruppo di lettura, dove trovate anche le modalità per iscrivervi.
Buona lettura!
Jessa Crispin al Festivaletteratura di Mantova 2024 (Foto: Tempestini)
Ripensare i padri
Un estratto dall’evento con Jessa Crispin dell’8 settembre 2024 all’interno di Festivaletteratura di Mantova
I miei tre papà è il tuo libro più recente, in cui hai esaminato le idee e le strutture che governano la nostra società per provare a scuoterle. Il libro si compone di tre parti, ognuna analizza una figura che riconosci come sostanziale nella tua vita ma anche nella vita di ciascuno di noi: il padre di famiglia, il cittadino e Dio. Nel libro c’è tanto di te e della storia della tua famiglia. Perché hai deciso di metterti a nudo e scrivere questo libro in modo così personale?
È giusto avere un’idea di come condurre una vita da brava femminista, ma poi c’è la confusione di compromessi, delusioni, difficoltà e ostacoli che fronteggiamo quotidianamente. Spesso è difficile conciliare queste due cose. Possiamo pensare il meglio delle donne, del loro lavoro, e sapere che dovrebbero essere più riconosciute, ma anche così continuiamo a vivere in un mondo che è solo in parte libero dal patriarcato. E quindi, cosa significa provare a rifiutare queste strutture e vivere in modo diverso? Ci ho provato e mi sono resa conto che stavo fallendo, ecco perché ho deciso di scriverne.
Nel primo capitolo racconti la storia di un tuo insegnante, un uomo che ha ucciso la sua famiglia, e rifletti sul fatto che questa vicenda è stata raccontata dai media come una delle tante disgrazie che accadono. Dici che ormai sentiamo queste storie talmente spesso che ci risultano ovvie, noiose, quasi fossero parte di una tradizione. Vedere le donne o intere famiglie sterminate dagli uomini è una tradizione: è terribile, ma non sorprende se pensiamo alla nostra passione per il true crime e per l’intrattenimento basato su queste storie...
Tendiamo a rendere mainstream queste storie proprio perché molta della violenza domestica è sempre stata nascosta. Il nostro modo di portare queste storie all’attenzione della gente è quello di renderle intrattenimento, trasformarle in podcast, serie tv, documentari, film. Ma temo anche che questo atteggiamento abbia ottenuto l’effetto opposto a quello sperato: ora siamo incuriositi ed eccitati da queste storie e la violenza diventa sempre meno un problema che dobbiamo affrontare e sempre più qualcosa che accade distante da noi. Ci diciamo: “Mio marito non mi ucciderebbe mai, non metterebbe il mio cadavere in una valigia per buttarlo lungo una strada, è qualcosa che succede solo sullo schermo”. Questa tendenza a trasformare la violenza in intrattenimento, anche se magari è iniziata con le migliori intenzioni, ci sta allontanando dal riflettere bene sul rischio che comporta per una donna la vita matrimoniale e familiare.
Per esempio, si parla molto in questo momento di un caso avvenuto in Francia (quello di Gisèle Pelicot, ndr): un uomo ha presumibilmente drogato per anni sua moglie per poi invitare vari uomini ad abusare di lei mentre lei era incosciente. Leggevo di questa storia e mi sono ritrovata a pensare: “Netflix ne farà sicuramente una miniserie in quattro puntate”. Trasformare queste storie in docuserie vuol dire cercare di renderle digeribili, eliminarle ed espellerle da noi stessi, piuttosto che fare in modo che sedimentino in noi. In questo modo non stiamo facendo nulla di utile per cambiare il modo in cui pensiamo e costruiamo le famiglie, soprattutto per fare sì che le donne siano più al sicuro al loro interno.
Infatti in un passaggio del libro dici che noi tendiamo a costruire le nostre famiglie come se fossero un regno in cui è impossibile per gli altri entrare, ma anche da cui è difficilissimo uscire. Questo è molto pericoloso per le donne, che spesso non trovano una via di fuga da situazioni di pericolo. Anche la famiglia andrebbe destrutturata e ripensata in senso non patriarcale, ma la vita di chi cerca di viverne al di fuori può essere molto complessa e solitaria.
Esatto, prendi me: sono vent’anni che cerco di vivere al di fuori del sistema famiglia, e finora non è andata molto bene! Quando parliamo di famiglia finiamo per pensarci solo in modo molto sentimentale: la famiglia è quella da cui torni a casa per le vacanze, quella da cui ricevi una chiamata il giorno del tuo compleanno… ma in fin dei conti la famiglia è quella che ti fa da garante finanziario, quella che ti lascia un’eredità, che ti permette di avere un’assicurazione sanitaria. Negli USA l’assicurazione sanitaria è strettamente legata al matrimonio e alla famiglia, e da questa quindi dipende la sicurezza del tuo stesso corpo. L’unica cosa che può sostituire la sicurezza che ti dà una famiglia sono i soldi. Quindi, a meno che tu non riesca a costruire abbastanza ricchezza da non aver bisogno di una famiglia, sei solo. Quando ho iniziato a scrivere questo libro non avevo una famiglia e non avevo nemmeno molti soldi, non me la passavo troppo bene.
Il libro inizia da un aneddoto: ci sono io al pronto soccorso dell’ospedale di Kansas City perché ho dei problemi di salute che ho trascurato, non potendomi permettere un’assicurazione sanitaria. Ho la febbre e mi hanno detto che se non fossi andata in ospedale avrei avuto solo 48 ore di vita. Ogni volta che mi somministrano qualcosa, per esempio una flebo, penso: “Altri mille dollari”. Praticamente per salvarmi la vita mi stavo rovinando per gli anni a venire. Ho poi scritto su Instagram della vicenda e il ragazzo che frequentavo da ormai qualche anno mi ha messo un like, ma non mi ha nemmeno mandato un messaggio. E lì ho realizzato che stavo veramente sbagliando qualcosa nella mia vita.
In questo libro e in tutto il tuo lavoro cerchi di mettere in luce i rapporti tra patriarcato e capitalismo. E da qui nasce anche la critica che fai al femminismo che tu chiami universale, ovvero quello che flirta con il sistema capitalista…
Non è che il femminismo mainstream, il femminismo universale, flirti col capitalismo: sono proprio sposati, in un matrimonio monogamo. È un sodalizio per la vita! Abbiamo solo due scelte, in modo particolare in quanto donne: il patriarcato o il mercato. Queste sono le due cose che ci nutrono, ci supportano, che danno significato alle nostre vite. Ma io credo che abbiamo bisogno di qualcosa di diverso. Pensavo che ci stessimo avvicinando a una comprensione del femminismo basata sul concetto di classe, ma alcuni recenti avvenimenti (per esempio la nomina di Kamala Harris a candidata presidente degli Stati Uniti) mi fa pensare che stiamo tornando indietro e stiamo di nuovo concentrando le attenzioni su ciò che è più semplice, ovvero i soldi.
All’inizio del tuo Perché non sono femminista dici: “Se il femminismo è universale, se è un carro su cui tutte le donne e gli uomini possono saltare, non fa per me. Se dichiarandomi femminista devo rassicurare che non sono arrabbiata, che non rappresento una minaccia, di certo il femminismo non fa per me. Io sono arrabbiata e rappresento una minaccia”. Questo libro l’hai scritto nel 2016 ed è uscito negli USA nel 2017, da quel momento sono successe tante cose: è stato eletto Donald Trump, è esploso il MeToo, c'è stata una pandemia, ci sono state guerre che hanno peggiorato la condizione delle donne in tutto il mondo… Oggi lo scriveresti in modo diverso, c'è qualche cosa che cambieresti?
Non credo, e per spiegarmi meglio uso proprio il MeToo come esempio: negli Usa si è trattato di un movimento che aveva a che fare con il benessere economico. Era tutto incentrato su industrie di glamour come il cinema, la politica, i media. C’era questa idea che a cascata si sarebbe diffuso un po’ in ogni ambito, ma non è stato così. I media si sono concentrati tantissimo su Harvey Weinstein e tutti quei personaggi famosi e di successo, ma quando per esempio le donne che lavorano nei fast food si sono fatte avanti per lamentarsi della mancanza di procedure per denunciare le molestie sessuali nei loro luoghi di lavoro non è che abbiano trovato molto spazio sulla stampa. Il femminismo in America purtroppo è ancora tutto concentrato sui problemi delle donne ricche, perché sono le classi più ricche a dirigere i giornali o le televisioni. Si dice che sia un femminismo per tutte le donne, ma la verità è che nessuno si preoccupa che sia davvero utile per tutte quante. Questo richiederebbe una vera organizzazione, o addirittura il ripensamento dell’intero sistema in cui viviamo. Purtroppo tutto il dibattito sul femminismo avviene sui media e nei libri, è difficile che questo abbia degli effetti concreti e duraturi; resta un discorso effimero. Questioni importanti come le molestie sessuali o la sicurezza delle donne a scuola o sui luoghi di lavoro non esistono solo nei libri. Bisogna cambiare il sistema in modo concreto, materiale, altrimenti le stesse tecniche e la stessa retorica che usiamo contro il patriarcato possono essere utilizzate dai reazionari per cancellare ogni progresso fatto.
Voglio farti una domanda sul dibattito intorno al diritto all’aborto negli Stati Uniti. In una delle ultime puntate del tuo podcast, The Culture We Deserve, dicevi che se la sentenza Roe vs Wade è stata cancellata e l’aborto non è più difeso costituzionalmente non è colpa solo di Donald Trump, ma anche dei democratici che non hanno fatto niente per salvaguardare questo e altri diritti civili. Ci spieghi meglio cosa intendi?
Negli Stati Uniti il diritto all’aborto è stato garantito da una sentenza della Corte Suprema degli anni Settanta. E dagli anni Settanta ogni presidente democratico ha promesso di fare una legge che lo codificasse nel sistema legislativo così da salvaguardarlo, perché non dipendesse più solo da una sentenza legale. E dagli anni Settanta ogni presidente democratico non ha mantenuto la promessa, pur avendola usata come argomento della propria campagna elettorale. Ci hanno detto “Se non voti per noi, il tuo diritto ad abortire verrà cancellato, noi ci preoccuperemo di salvaguardarlo”, ma in realtà non l’hanno fatto: è una forma di manipolazione. E poi è successo davvero, il nostro diritto di abortire in sicurezza è stato pian piano smantellato e tutti ne sono rimasti sorpresi. Joe Biden ha promesso di cambiare la legge, e non l’ha fatto; ora Kamala Harris sta promettendo di cambiare la legge, e probabilmente non lo farà: per la sinistra statunitense è più utile lasciare che questo diritto sia vulnerabile, perché è quello che porta le persone a votare e che fa guadagnare fondi. [...] Questo è il punto in cui siamo: ci hanno promesso protezione e non ce l’hanno data, quindi ora le donne si stanno organizzando per proteggersi da sole. È bellissimo, ma credo anche che sia un lavoro che non spetterebbe loro.
[Una domanda dal pubblico] Io faccio l'insegnante e i miei alunni e alunne hanno un'età compresa fra i 14 e i 19 anni. Mi spaventa constatare quello che vedo tutti i giorni e cioè che i maschi considerano le femmine come degli oggetti. Pensi che ci sia qualcosa che famiglie e scuole possano fare per far sì che questi ragazzi non imparino fin da giovani, fin da piccoli, a considerare le donne sotto questa luce? E se pensi che si possa fare qualcosa, che cosa?
Non credo che questo sia compito del femminismo, è un lavoro che spetta agli uomini. Il femminismo ha liberato le donne dalle strutture patriarcali, mostrandogli che potevano vivere anche al di fuori di esse, e stiamo ancora lavorando per capire come. Allo stesso tempo però gli uomini non hanno vissuto questo momento come una loro liberazione dai ruoli e dalle strutture che il patriarcato gli imponeva; non hanno capito che potevano vivere la loro vita in modo diverso. Non si sono dimostrati felici, curiosi, coinvolti di fronte a queste nuove possibilità. Il femminismo ha fatto un sacco di lavoro teorizzando il cambiamento, cantandolo nelle canzoni pop, raccontandolo nei libri e organizzandosi politicamente. Gli uomini l’hanno vissuto come un tradimento, come se stessero solo perdendo potere quando invece ne stavano guadagnando. È arrivato il momento che gli uomini inizino a pensare al femminismo in modo diverso e a leggerne le possibilità che offre anche a loro.
Onestamente, mi dispiace molto per i maschi perché mi sembra che le loro vite si facciano sempre più piccole, che siano sempre più paranoici sull’apparire troppo femminili, senza potere e che questo gli stia privando di tutta la gioia possibile. Quando guardo i ragazzi giovani mi sembrano così tristi, perché non hanno gli strumenti necessari per creare significato nelle loro vite se non attraverso meccanismi di acquisizione: fare soldi o mettere su muscoli, per esempio. È un modo molto triste di vivere. Li guardo e mi sento profondamente desolata per loro. In generale mi sembrano piuttosto patetici. È importante non provare solo rabbia o indignazione nei confronti degli uomini, riappropriamoci anche della pietà. La pietà è un’arma molto potente. Se riesci a vedere le persone che hai sempre considerato come nemici o oppressori per quello che sono, ovvero persone che vivono delle vite miserabili, questa può essere già una bella rivincita.
Jessa Crispin (1978), blogger e attivista, ha fondato le riviste letterarie online Bookslut e Spolia. Ha scritto inoltre per numerose importanti testate, tra cui il New York Times, il Guardian, il Washington Post e la Los Angeles Review of Books. Nel 2017 ha pubblicato il manifesto Perché non sono femminista, I miei tre papà è il suo ultimo libro (entrambi sono editi in Italia da Sur).
Cose belle che abbiamo letto in giro
Se non ne avete sentito parlare, ecco qualche informazione in più sul processo che sta avvenendo in Francia contro decine di uomini accusati di aver stuprato una donna.
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Come la perimenopausa si percepisca come la pubertà.
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La moda anacronistica delle proposte di matrimonio.
Sguardo cinematografico sulle persone che vivono al margine.
All’ultima Mostra del cinema di Venezia Maura Delpero ha vinto il Leone d’argento con il suo Vermiglio.
Dopo La ladra di parole, Abi Daré è tornata con un nuovo libro. E vi segnaliamo anche il romanzo di Elena Fischer per Feltrinelli Gramma.
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