Non so se penserei al suo nome se mi chiedessero «Chi è la donna più famosa di questo secolo?», ma con ogni probabilità una ragazza di dieci anni meno di me risponderebbe senza pensarci due volte «Taylor Swift».
Eppure, scrivere questa introduzione tocca ancora a me (Giulia C) perché qui la swiftie sono io. Sono io quella che ha tentato di comprare un biglietto per il suo tour in ciascuna delle mete europee (alla fine mi sono aggiudicata Vienna, ma sono disposta a tutto per un biglietto di Milano: fatevi avanti). Sono io quella che si commuove ogni volta che la riproduzione casuale fa partire Exile, e quella che si spazientisce perché l’ultimo-album-non-è-bello-come-quello-precedente.
Per anni abbiamo parlato dei suoi fidanzati, delle controversie con vari membri dell’industria musicale, delle sue amicizie e delle sue inimicizie, della sua parabola dal country al pop, ora si parla molto del suo impareggiabile potere economico e mediatico. Si è sempre parlato poco della sua musica, forse anche perché in fin dei conti c’è poco da dire: se piace, piace. Ma di tutto questo, cos’è che spinge me e altri milioni di persone a spendere centinaia di euro e prendere un volo internazionale pur di vederla dal vivo?
Questa domanda se l’è fatta anche Viola Stefanello, giornalista e swiftie (molto più swiftie di me). E questa è la sua risposta.
Buona lettura!
Taylor Swift con i suoi fan
Il mio posto nel mondo: un concerto di Taylor Swift
di Viola Stefanello
Da qualche anno capita spesso che ai concerti che frequento le ragazzine svengano. È successo di recente a un concerto di Mahmood, e non ci ho fatto troppo caso: la sala era gremita di persone, chiunque avrebbe fatto fatica a respirare. Era successo ben tre volte allo stesso concerto delle Boygenius a cui ero stata a Berlino, lo scorso agosto: ogni volta, le tre cantanti sul palco avevano interrotto la propria performance per chiedere che fosse data loro dell’acqua, o che arrivasse qualcuno dello staff ad aiutare le ragazze in difficoltà. A quanto pare ai loro concerti – frequentati in larga parte di donne queer tra i venti e i trent’anni – succede talmente spesso che sul subreddit dedicato alla band l’anno scorso è nata una conversazione a partire da un post intitolato «Per l’amor di Dio, smettetela di svenire ai concerti».
Ne ho parlato con un collega che di concerti ne segue tantissimi – certe volte anche uno, due alla settimana – e mi ha risposto che lui questa cosa non la vede succedere mai. Riflettendoci un po’, siamo giunti alla conclusione che non dev’essere (solo) colpa del cambiamento climatico: è più probabile che sia la conseguenza di un certo modo di essere fan che si è diffuso moltissimo negli ultimi anni, soprattutto tra le ragazze più giovani, catapultate dalle classi del liceo direttamente a palazzetti da decine di migliaia di spettatori. Si accampano sistematicamente, alcune fin dalla sera prima, in modo da essere davanti a tutti gli altri al momento dell’apertura delle porte, per finire proprio di fronte al palco; stanno sotto al sole per ore, cercando di limitare quanto possibile l’acqua da bere per non rischiare di dover andare in bagno e perdere il posto; una volta entrate vigilano sul posto duramente conquistato anche al costo di continuare a ignorare le necessità del proprio corpo. L’unica cosa che interessa loro è stare più vicine possibili alla fonte della propria ossessione. Meritarsi di essere lì. Forse è un miracolo che non ne svengano di più.
Venerdì 24 maggio fuori dallo Stadio da Luz di Lisbona – normalmente abitato dai tifosi del Benfica, la squadra più blasonata della città – ho visto svenire la prima persona mentre ci trovavamo ancora in fila. Il sole era altissimo e feroce, l’ombra quasi inesistente. Lasciare la fila, che portava al parterre e procedeva con una lentezza primordiale, era impensabile: la ragazza è stata soccorsa da un paio di persone esperte di pronto soccorso nei paraggi, e poi siamo tornati ad aspettare, sudando sotto alle nostre gonne sbrilluccicose e nelle nostre coroncine di fiori, ai piedi decine di stivali da cowboy, le braccia coperte di braccialetti di perline.
La prima canzone di Taylor Swift che ricordo di aver amato disperatamente è mezza sconosciuta: lei aveva sedici anni, ancora i boccoli biondi e la faccia da bambina, e se ne parlava già come un’incredibile promessa del country. Io ne avevo dieci, mi sentivo intrappolata nel piccolo inferno privato che può essere la pianura padana quando non hai una patente o degli amici, e sentivo un’affinità viscerale con quella voce che cantava «I'm alone, on my own, and that's all I know /I'll be strong, I'll be wrong, oh but life goes on/'Cause I'm just a girl, trying to find a place in this world». Anni dopo Swift avrebbe raccontato di aver scritto quella canzone a tredici anni, appena arrivata a Nashville: «Sapevo che volevo fare la cantante e trovare un’etichetta discografica, ma non sapevo come fare ad arrivare a quel punto», ha spiegato. A place in this world era quello che sarebbero finite per essere tantissime altre sue canzoni: la sublimazione limpida e sincera di un sentimento doloroso e universale.
A morire di caldo fuori dallo Stadio da Luz insieme a me ci sono migliaia di persone – in larga parte donne e ragazze, ma vi stupirebbe sapere quanti uomini ci siano tra i fan – che hanno una storia come la mia da raccontare. Certo, ci sono i fan casuali che hanno visto i video su TikTok e sono emozionati all’idea di sentire Cruel summer o Antihero, tra le sue canzoni più conosciute e condivise online. Ma il segreto dietro al gigantesco fandom che si è creato attorno a Taylor Swift – e di cui un sacco di gente ancora non si capacita – sta tutto nella sua capacità di gettare, con i suoi testi, una rete abbastanza ampia da raccogliere moltissima dell’esperienza femminile dall’adolescenza in poi. A un certo punto rimani incagliata, ti distrai un attimo, e stai su un volo internazionale per vederla suonare mentre il sole cala su Lisbona.
È difficile sottostimare quanto hype esista attorno all’Eras Tour. Quando aprirono per la prima volta le vendite dei biglietti per le date statunitensi, trovare un biglietto divenne talmente difficile da creare una discussione al Congresso americano. Da allora è diventata la tournée più redditizia della storia: più di 150 concerti in decine di paesi, una ventina di cambi di outfit, tre ore e mezza di performance. Certe date hanno attirato talmente tanta gente da avere un impatto misurabile sul PIL del paese ospitante, al punto che il governo di Singapore ha scelto di stringere un accordo con lei per assicurarsi che organizzasse tappe soltanto sul loro territorio, di tutto il sudest asiatico. Le date europee, in realtà, sono tuttora piene di statunitensi che hanno scelto di pagarsi anche un volo intercontinentale pur di riuscire a vederla da qualche parte.
È un’operazione talmente gigantesca, soprattutto per una persona che ha solo 34 anni e in teoria tutta la carriera ancora davanti, che non riesci a domandarti come possa uscirne, dopo. Tornerà a fare tour normali, promuovendo un album alla volta man mano che lo produce e piazzando qua e là le greatest hits, come fanno tutti gli altri? Sarà costretta ad aggiungere un nuovo set all’Eras Tour con ogni album nuovo che arriva, fino a quando il concerto non durerà sette ore filate e lei dovrà finalmente ammettere di avere una doppelganger? Si darà alla regia? Alla scrittura? All’ippica? Indosserà un paio di baffi finti e tornerà a suonare a Nashville, fingendo di essere appena arrivata sulla scena musicale?
Quello che so è che per ora il risultato, una volta varcata la soglia dello stadio, è soverchiante. Un po’ non ti sembra vero: hai visto questa cosa succedere a migliaia di persone prima di te, nei video ufficiale, nel documentario che ha riempito le sale l’anno scorso, sera dopo sera in milioni di video di TikTok. Un po’ ti senti come alle manifestazioni: commossa fino alle lacrime di fronte alla realizzazione che sì, sei parte di qualcosa di gigantesco. Anche se vuol dire cercare di guardare il palco attraverso uno stuolo di smartphone intenti a riprendere ogni istante per le persone da casa: quello spettatore assente, in fondo, fino a ieri eri tu. La parte cinica e razionale di te che ricorda molto bene come il rapporto parasociale che intercorre tra fan e celebrità sia costruito sapientemente per massimizzare il quantitativo di soldi che sei disposta a spendere per loro è stata lasciata all’aeroporto, la riprenderai più tardi.
Soprattutto, nello stadio del Benfica, c’è questa cosa che mi attraversa la testa. È un pensiero irrazionale, come quello che anima ogni passione di questa portata: se mi fermassi a osservare questa narrazione un attimo sotto la luce mi renderei conto subito che è piena di crepe. Quello che penso è che Taylor Swift è riuscita a trovare il suo posto nel mondo. Anzi, per essere precisi, dopo lunghe vicissitudini e alcuni momenti di traballamento, è forse la donna più famosa di questo secolo. Sicuramente, finora, di questo decennio. Le sue canzoni non parlano più della paura di non farcela: celebrano piuttosto il fatto di essere riuscita, più che egregiamente, a smentire chi credeva che non ce l’avrebbe mai fatta. Inclusa quella nella propria testa. E penso che ce l’ho fatta anch’io, tutto sommato. Non a diventare la donna più famosa del mondo – che sembra tra l’altro essere un particolare inferno a modo suo – ma ad andarmene e avere una buona ragione per farlo che non fosse solo la necessità di non essere lì, questo sì.
Oggi la canzone che amo disperatamente più di tutte si chiama You’re on your own, kid. Viene in larga parte da un discorso che ha fatto nel 2022 quando le è stata data una laurea honoris causa dalla New York University, ed è tra le altre cose il motivo per cui le swiftie hanno cominciato a scambiarsi quei braccialettini di perline (i friendship bracelets, in inglese) ai concerti. La rete in cui mi sono incagliata è fatta di queste parole qui:
From sprinkler splashes to fireplace ashes
I gave my blood, sweat, and tears for this
I hosted parties and starved my body
Like I'd be saved by a perfect kiss
The jokes weren't funny, I took the money
My friends from home don't know what to say
I looked around in a blood-soaked gown
And I saw something they can't take away
'Cause there were pages turned with the bridges burned
Everything you lose is a step you take
So, make the friendship bracelets, take the moment and taste it
You've got no reason to be afraid
You’re on your own, kid
You always have been
Viola Stefanello è nata in provincia di Padova e ha vissuto a Gorizia, Parigi e Roma prima di cedere a Milano. Ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche prima, Giornalismo e diritti umani poi, ma scrive soprattutto di fandom, tecnologia e altre cose da nerd. Lavora come giornalista al Post, e ha scritto per Repubblica, Internazionale e altre testate. Passa molto tempo online.
Cose belle che abbiamo letto in giro
Visto che abbiamo parlato di Taylor Swift vi segnaliamo anche la storia di copertina dello scorso numero di Internazionale, dedica al potere (anche economico) della cantante.
E perché tutti parlano di Sabrina Carpenter.
Fenomenologia del neo-tormentone estivo.
Alle elezioni in Iran si parla moltissimo della legge sull’hijab.
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Che legame c'è fra reddito, ricchezza, potere e controllo? Un rapporto dell'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere unisce i punti dei diversi fattori che contribuiscono ad alimentare le disparità economiche tra uomini e donne in Italia e in Europa.
Giorgia Meloni e il femminismo.
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Sempre più adolescenti hanno problemi di salute mentale.
Vi ricordiamo l’evento che terremo il 3 luglio alle 19 alla Libreria del Convegno di Milano insieme a Ludovica Lugli sul libro di Gabriella Parca, I Sultani, ripubblicato da Nottetempo.
A presto,
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