Oggi è la Festa del Papà e l’occasione ci sembrava buona per parlare di madri. No dai, l’occasione ci sembrava buona per invitare in questa newsletter un’altra newsletter, nata da poco ma che ci piace già molto: si chiama Geni, che sta sia per “genitori”, ma anche per “genio”, cosa indispensabile per tirar su dei figli.
Geni nasce da un gruppo di genitori che sentivano il bisogno di creare uno spazio di confronto sulla genitorialità (e sul suo ruolo anche politico), lontano dalle polarizzazioni che oggi ruotano intorno al concetto di parenting: a un estremo la mistica della maternità, all’altro il cinismo, e in mezzo la divulgazione medica e scientifica - utile sì, ma distante dalla vita di tutti i giorni -. Questo nuovo progetto, invece, “ha l'ambizione di raccontare i genitori nella loro umanità, fatta di dubbi, errori e intuizioni geniali casuali. In questa newsletter troverete sia riflessioni serie sia cazzeggi, perché essere madri e padri è la cosa più bella che ti possa capitare ma anche una gran rottura di palle”. Se siete madri o padri dovreste iscrivervi subito; se non lo siete dovreste farlo comunque: si sa mai che impariate qualcosa di buono per il futuro!
Oggi ve ne diamo un assaggio, con un pezzo di Valentina Colosimo che ci racconta del momento in cui ha smesso di essere Valentina ed è diventata per sempre la mamma di.
Immagine di Chris (Simpsons artist)
Chiamami col mio nome
di Valentina Colosimo
Che sarebbe cambiato tutto dalla nascita della mia bambina, hanno cominciato a dirmelo cinque minuti dopo il test di gravidanza, dunque all'idea mi sono abituata fin da subito, non avevo scelta. Ma era appunto solo un'idea, buona per fantasticare e alla quale reagire con la seguente strategia di controllo: sì, cambierà tutto ma io. Ma io sono preparata, ho anche letto un sacco di libri sull'argomento, un'intera bibliografia sulla maternità, quanto basta per scrivere due tesi di laurea. Ma io ho parlato, anzi intervistato, tutte le mie amiche e conoscenti mamme sul tema. Ma io, in sostanza, sono diversa. Certo. Poi arriva il parto, lo tsunami emotivo, il baby blue, la gabbia dell'allattamento. L'intero disastro si presenta come da manuale alla mia povera psiche da neo mamma, ma con un dettaglio che non ho previsto, o almeno non ho individuato nella bibliografia letta. Per il mondo sono improvvisamente e unicamente diventata la mamma di. In ospedale, già dalla sala parto, nessuno si rivolge a me come signora: sono la mamma di. Mi apostrofano proprio così: mamma di Maria, venga qua. Mamma di Maria? Il mio nome polverizzato, come se non fosse più importante, come se la vecchia me non fosse mai esistita, sostituita a un tratto da questa donna che non conosco dai capelli arruffati, costantemente in camicia da notte, a cui le ostetriche spiegano come si manovra una tetta per allattare una neonata. Con il nome, mi rendo conto con sconcerto, è volata via quella cosa che chiamiamo identità. Le mie esigenze non contano più, se ho male ai capezzoli - il dolore più lancinante mai provato, come di vetri che trafiggono la carne viva - la puericultrice alza le spalle: mamma, provi a usare le coppette d'argento (sottotesto: che sarà mai). Mamma, non signora. Non sono più un essere umano dotato di intelletto, desideri, libero arbitrio, paure. Sono una mamma, la mamma di Maria, dunque vivo in funzione di questa neonata che piange, mangia e dorme. Mi chiamano solo mamma, anche i parenti e gli amici a volte, il mio nome deve essersi perso insieme ai ciucci che cerco - senza successo - con ogni mezzo illecito (sì, anche con lo zucchero) di infilare in bocca alla neonata. Dunque eccomi qua, con una nuova identità con cui fare i conti e una simbiosi con una bebè che, prima di diventare estasi d'amore, somiglia pericolosamente a una truffa. Dov'è finita la me che lavora, quella con una vita sociale, quella con degli interessi culturali? Niente, sono la mamma di Maria, vedi quella donna? Quella è la mamma di Emma, potete parlare delle vostre bambine. Forse mai come nei primi mesi di vita di Maria ho apprezzato tanto l’esistenza di un gruppo WhatsApp: quello del corso preparto, tutte disperate come me, un lungo flusso di sfoghi su cui fare affidamento anche in tarda notte.
Poi passa il tempo e - non c'è un momento preciso - la mamma di Maria non è più un'estranea piombata nella mia vita, si mescola a tutto il resto aumentando il casino identitario e quando al nido l'educatrice mi chiama dalla porta «mamma di Maria», non provo più alcun fastidio. Forse quella identità che pensavo solida non è mai esistita, forse assomiglio di più a questo magma di emozioni e idee che cambiano di ora in ora, figurarsi dopo aver messo al mondo un'altra persona. Sono la mamma di Maria, così come sono tante altre cose che insieme non fanno comunque un essere univoco e granitico. Sono solo certa che questa bambina è un allenamento costante alla vita e un obbligo alla gioia semplice.
Una cosa però non riesco ancora a farla: dire «mia figlia». Non mi piace neanche dire «mio marito», preferisco usare i nomi. Faccio persino fatica a scriverlo, «mia figlia», e forse il fastidio ha a che fare con quelle giornate in ospedale con le ostetriche che avevano cancellato il mio nome.
Valentina Colosimo, 41 anni, giornalista, è tra le fondatrici di Geni, la newsletter dedicata alla genitorialità. Vive a Milano con la figlia, il marito e due gatti.
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