Un articolo di qualche mese fa, pubblicato su Internazionale, racconta di quale sia stato il contributo delle donne agli albori dell’informatica. Fino agli anni ‘80, infatti, erano state molte le programmatrici perché per questa professione si cercavano soprattutto persone meticolose e in qualche modo lo stereotipo della lavoratrice che si occupa di compiti di precisione (come la tessitura e la maglia) riconosceva nelle donne la giusta attitudine anche per questa attività.
Dopo il 1984 però, con l’avvento del personal computer nelle case delle persone e dei percorsi di studio dedicati all’informatica all’università, la tendenza si invertì premiando gli uomini. A differenza delle loro compagne di classe, incoraggiate a perseguire carriere umanistiche, matrimonio e figli, i ragazzi venivano spronati fin da bambini ad avvicinarsi alle materie scientifiche e all’uso del computer. Da questo imprinting culturale dipendono anche molti degli stereotipi che ancora oggi accompagnano studenti e studentesse: per esempio, il fatto che la matematica e l’ingegneria non siano considerate cose da femmine.
Lo scorso 23 giugno si è celebrata la Giornata Internazionale delle Donne in Ingegneria e, quindi, per questa newsletter abbiamo deciso di parlare di materie STEM, di come stiano le cose, di quali siano le difficoltà incontrate dalle ragazze durante il percorso di studi o nel mondo del lavoro, e di quali invece le opportunità esistano. Ne abbiamo discusso con sei scienziate italiane, giovani donne che, ognuna nel suo ambito, stanno lottando per crearsi uno spazio in un ambiente ancora fortemente misogino.
Illustrazione di Silvia Bettini per Senza rossetto
Le ragazze delle STEM
Intervista a sei scienziate italiane
STEM, forse ormai lo saprete, è l’acronimo inglese che indica le materie scientifiche e i corsi di ingegneria e matematica. A livello mondiale si stima che le donne laureate in queste materie siano 4 ogni 10 studenti e in Italia il divario di genere nelle università scientifiche non è da meno: nell’anno accademico 2018/2019 per esempio, AlmaLaurea ha rilevato che, anche se le donne sono complessivamente il 58,7% degli iscritti all’università, queste scelgono soprattutto corsi di studio umanistici. Solo il 18% di loro sceglie corsi STEM.
«Il primo anno di università su 60 iscritti eravamo due donne», ci racconta Asja, ingegnera elettrica laureata a Roma. Dopo un Erasmus e il dottorato a Losanna, oggi vive ad Aarau e lavora per la società di fornitura di energia elettrica in Svizzera.
«A Ingegneria Ambientale, invece c’era più equilibrio. Saremo stati un 40% donne e un 60% uomini. In Olanda forse addirittura raggiungevamo un 50% e 50%» ci dice Elena. Laureata a Brescia, ha fatto Erasmus e dottorato a Delft, in Olanda. Ora invece lavora all’Università di Cagliari.
Asja e Elena sono due delle sei scienziate con cui abbiamo avuto occasione di parlare per conoscere un po’ più da vicino l’ambiente delle STEM, in Italia e all’estero. Insieme a loro ci sono anche Chiara, ingegnera meccanica in postdoc a Oxford, e Silvia, laureata in biotecnologie al San Raffaele che dopo un dottorato nel Dipartimento di Biochimica a Oxford da qualche mese sta frequentando il postdoc a Copenaghen. E poi Caterina, laureata in Ingegneria Matematica al Politecnico di Milano, addottorata all’EPFL di Losanna, oggi lavora per una start-up nell’ambito dell’intelligenza artificiale. E infine Enrica, ingegnera energetica che si è formata tra Bologna, San Diego e Copenaghen e, dopo il dottorato in Svizzera, ha trovato lavoro a Zurigo in un'azienda del settore energetico in cui si occupa di analisi dei dati.
Come noterete, sono tutte scienziate che si sono formate in Italia, ma che hanno poi scelto percorsi di alta formazione all’estero, dove sono rimaste in quasi tutti i casi anche per proseguire le loro carriere lavorative. Sei esperienze molto diverse, in ambiti e contesti distinti, che ci danno uno spaccato di cosa voglia dire essere una donna nella Scienza.
«Non ho ricevuto la chiamata della biotecnologia fino al liceo. Infatti, ho fatto il liceo Classico», dice Silvia. «La mia materia preferita era Biologia, e lì ho capito di volerla studiare anche all’università. Mai nessuno mi ha sconsigliato la carriera da biologa, anche perché tra gli studenti e i dottorandi ci sono tante ragazze. Ma un po’ di soggezione l’ho subita, soprattutto agli inizi, perché c’era una grande competizione sull’avere bei voti, sul capire le cose al volo e fare domande intelligenti. Tutte caratteristiche che i maschi sono molto più abituati a coltivare fin da piccoli».
Come ci raccontano Caterina e Enrica, che ora sono le uniche donne nei loro team di lavoro (addirittura Enrica è l’unica su 50 colleghi!), i maschi sono spesso considerati quelli con maggiore intuito e con migliori capacità di problem solving, ma questo deriva molto dal tipo di educazione che ricevono e, lavorando a stretto contatto tutti i giorni, ci si rende conto che si tratta solo di pregiudizi. «Gli uomini sparano a zero e si impongono e quindi vengono percepiti come più veloci e più svegli. Questo non è un problema dell’ambiente scolastico o accademico dove parlano i risultati, ma nel mondo del lavoro vince il più forte e questa attitudine a essere più riflessive ci svantaggia», dice Enrica.
Il gender gap che si può vedere già all’università, infatti, non fa altro che acuirsi quando parliamo di alti gradi della carriera accademica e di mondo del lavoro. Qualche dato? Nel mondo le ricercatrici sono solo il 30% del totale, e se guardiamo nello specifico ai settori tecnologici questa disparità diventa enorme: gli uomini sono l’83%. Come ci raccontano le ragazze, è normale entrare in un laboratorio di un qualsiasi istituto di ricerca - in Italia ma anche all’estero - e vedere che i capi sono tutti uomini, anche quando (a volte capita) i membri del team sono a maggioranza donne.
«Nell’azienda dove lavoro adesso stanno facendo degli studi per capire perché non ci sono donne ai livelli apicali: in tutta l’azienda saremo circa un 25% di donne, ma per esempio ai livelli manageriali puramente tecnici questa percentuale scende drasticamente, intorno al 4,5%», ci racconta Asja.
E questo ovviamente si riflette anche nei salari. In Europa si stima che il gender pay gap (ovvero il divario retributivo tra uomini e donne) si attesti in generale intorno al 16% e, al di fuori delle carriere universitarie pubbliche dove il salario è stabilito dall’assegnazione di borse di studio, questa percentuale si conferma anche negli ambiti STEM, soprattutto privati e soprattutto ad alti livelli.
Datori di lavoro? Tutti uomini. Professori? Tutti uomini. Colleghi? Tutti uomini. Come dice Chiara, «per andare avanti nelle scienze ed essere una donna in un mondo di uomini devi essere ancora più convinta delle tue capacità di quanto dovresti essere normalmente. Le dinamiche che si instaurano in questi ambienti spesso ti forzano a uniformarti al modello che vedi funzionare, quindi vuoi essere anche tu tosta, cattiva, stronza come gli altri». Ma la sindrome dell’impostora è sempre in agguato.
«Una volta un compagno di studi mi ha chiesto “Ma questo lavoro te l’hanno dato perché sei donna? Perché mi pare che la prof con cui ti sei interfacciata sia un po’ femminista”. Forse la battuta più sessista che mi abbiano mai fatto. Ma io ho fatto sette colloqui per ottenere quel posto!» ci dice Caterina. A queste condizioni non cedere a dubbi e insicurezze è sicuramente difficile. E poi c’è il sessismo quotidiano, quello che subisci a lavoro come all’università: parlando insieme è risultato che le esperienze sono molto diverse, ma di media almeno una battuta sul loro essere donna prima o poi l’hanno ricevuta tutte. Poi c’è chi ha subito domande poco professionali o commenti non richiesti, soprattutto in Italia, ma questo non significa che all’estero gli ambienti siano meno sessisti.
«Un inglese non ti dice nemmeno che ti ama, figurati se ti fa una battuta sessista», scherza Chiara. «All’estero queste cose non capitano - conferma Silvia - ma non solo non capitano: se capitano sai esattamente a chi rivolgerti per segnalarli. A Oxford per esempio ci sono almeno tre uffici preposti per arginare episodi di sessismo o di molestie». Ma in queste società, genericamente più educate e riservate, il sessismo può essere anche più subdolo, meno palese e quindi ancora più difficile da smascherare. Enrica ci dice che secondo lei «ovunque, anche all’estero, si percepisce la difficoltà ad accettare che una donna possa avere un’opinione forte da esprimere, o addirittura un potere da esercitare».
E poi c’è il sessismo esercitato dalle altre donne. «Per esempio, durante la seconda settimana di dottorato la mia supervisor mi ha detto “Sì, i fidanzati sono concessi… ma in questi quattro anni, mi raccomando, niente figli!”. Come battuta, ridendo e scherzando, però me l’ha detto!», dichiara Elena.
Un argomento su tutti che mette in disaccordo le stesse donne è quello delle quote rosa. Proviamo a chiedere alle ragazze se si siano mai sentite tali nel loro ambiente e se questo gli abbia mai dato fastidio. Essere una quota di genere è giusto, ma può essere anche molto difficile. Ci risponde Asja: «Io non mi sono mai sentita una quota rosa, però penso che non ci sia niente di male ad assumere un ruolo solo perché si è donna; è una transizione necessaria che dobbiamo assolutamente fare. Quando abbiamo dei dubbi, dobbiamo sempre chiederci perché il nostro curriculum è inferiore rispetto a quello di una persona che ha la nostra formazione, la nostra età ed è uomo. La risposta è che quell’uomo probabilmente è sempre stato invogliato a fare un certo tipo di scelte, a quell’uomo è stato insegnato a vincere fin dalla nascita. Se la nostra formazione ci permette di avere accesso a una posizione (e quindi intendo chiaramente avere i requisiti richiesti per quel ruolo) secondo me non c’è niente di male a occuparla. Non sarò la più brava in assoluto? L’importante è che io sia brava abbastanza. Vorrà dire che per qualche anno, per qualche decennio, non assumeremo le eccellenze. Ma poi cos’è l’eccellenza, se non abbiamo avuto gli stessi strumenti? In questo momento l’eccellenza è per lo più rappresentata dalla fortuna di essere nati nella parte giusta del mondo, dalla classe sociale di provenienza, dall’appartenenza di genere… Dobbiamo smettere di seguire il principio capitalista per cui i posti di lavoro li occupano le persone più brave, soprattutto quando parliamo del settore della ricerca in cui vengono investiti soldi pubblici. I soldi pubblici non devono seguire il capitale e il profitto; devono perseguire l’inclusione e la giustizia sociale!».
Un quadro non troppo incoraggiante, forse, ma in realtà queste scienziate hanno un sacco di consigli per le ragazze che vogliono percorrere una carriera nelle materie STEM. Il primo tra tutti arriva da Chiara: «Ragazze, fate scienza perché servono le donne per dare un carattere più universale e più flessibile alla ricerca!». Un altro consiglio che arriva da più parti è quello di imparare a gestire le discriminazioni, a non rimanerci male e a non farsi abbattere, ma anche di imparare a contrastarle. Come dice Caterina, «se sei una dalla battuta pronta, usala. Come dicono all’estero Make it awkward. Se ci sono situazioni discriminatorie, fallo notare e rendilo imbarazzante. Vedrai che chi ha fatto quella battuta sessista non la farà più!». E poi, conclude Silvia: «Siate tenaci. La scienza può essere molto frustrante, non solo per l’ambiente di lavoro. Se hai una giornata storta chiudi i libri, esci dal laboratorio e riprova il giorno dopo. Ma non perdere la passione».
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