«Non c’è niente da fare, a noi a differenza degli uomini si chiede una scelta. Io ho tre figli ed è stato faticoso conciliare le cose, ma per fortuna il nostro è un ristorante a gestione familiare e lavoro con loro. Ma bisogna dare più spazio alle giovani, incentivarle, far loro capire che in futuro andrà meglio. È una questione di tempo. Al momento anche se si dice il contrario la donna è posta di fronte a una scelta, visto che il mestiere del cuoco impone ritmi e orari davvero pesanti».
Questo era il racconto di Sonja Egger, del ristorante Kuppelrain di Castelbello (Bolzano), premiata a novembre 2021 dalla guida Michelin come miglior sommelier dell’anno. Una premiazione, quella per Rossa 2022, in cui su 33 nuove stelle solo una era di una chef donna. Perché se è vero che nella tradizione, soprattutto quella italiana, la cucina è il regno della mamma e delle donne in genere, la stessa cosa non capita nei luoghi di lavoro, dove la creatività maschile trova molto più spazio e possibilità.
Ma se entrassimo nelle cucine di casa, se andassimo a sfogliare gli appunti delle nonne e i trucchi del mestiere passati di generazione in generazione, cosa troveremmo? A questa domanda ha provato a rispondere Mila Fumini, attraverso il progetto Ragù - Reti e Archivi del Gusto con il quale ha intrapreso un viaggio nei ricettari delle famiglie. E di storie di donne (ma non solo) ce ne sono molte.
Buona lettura!
Illustrazione di Giulia Boccalero per Senza rossetto
La storia dal buco della serratura della cucina
Intervista a Mila Fumini
Ragù - Reti e Archivi del Gusto è un progetto personale, che porti avanti da qualche anno parallelamente al tuo lavoro di ricercatrice. Di cosa ti occupi, normalmente?
Ho un assegno di ricerca al Dipartimento di Storia di Firenze, dove mi occupo di storia religiosa femminile in età moderna. L’altro mio topic di ricerca sono le digital humanities, quindi tutte quelle metodologie che permettono di trasformare un documento analogico in digitale. Una disciplina nata nella Seconda Guerra Mondiale, quando nascono i primi pc per decriptare messaggi nemici, e quindi soprattutto gli americani investono tantissimo nella ricerca. In particolare, c’è un gesuita italiano a cui IBM da un sacco di fondi per permettergli di redigere l’Index thomisticus, ovvero studiare tutte le opere di Tommaso d’Aquino e redigere le occorrenze terminologiche. Si tratta di uno dei corpi di opere più vasti della letteratura occidentale, e Lorenzo Busa decide di utilizzare i pc. In realtà si scoprirà che IBM aveva investito questi soldi per giustificare lo sviluppo della ricerca computazionale per poi sfruttarla per decriptare i messaggi dei russi durante la Guerra Fredda. Quindi è una disciplina che nasce per un uso estremamente pratico, di carattere filologico e terminologico. Quando poi arriva il world wide web questi studi trovano il modo di diffondersi in modo vastissimo e democratico. Quindi negli anni Ottanta (e poi negli anni Novanta e Duemila) cominciano a fiorire gli studi sulla rappresentazione digitale degli archivi cartacei, e così nascono le digital humanities come le intendiamo oggi. Io vengo da studi di tipo storico classico: ho fatto filosofia a Bologna, poi un dottorato sempre a Bologna e poi uno a Trento, su alcune fonti dell’Archivio Segreto Vaticano. A me sono sempre interessate le scritture di donne, i testi delle persone che vengono definite “semicolte” (quindi che non hanno una formazione letteraria) e poi in generale la traccia scritta, ma fino alla nascita di Ragù io avevo sempre studiato solamente fonti religiose femminili.
E com’è nata l’idea di creare un archivio dei ricettari di famiglia?
Nel 2016 mi sono messa con una ragazza che ha studiato all’Università di Scienze Gastronomiche a Pollenzo. Siamo state insieme quasi due anni e a un certo punto lei ha comprato una casa a Bologna. Quando siamo andate a sgomberare la cantina abbiamo trovato diversi scatoloni che contenevano i documenti personali dei proprietari precedenti: scontrini, ricette mediche, i quaderni con la lista della spesa, quelli con la lista delle spese, e ovviamente anche un paio di quaderni di cucina. Io, che trovo molto interessante fare storia non tanto attraverso i documenti ufficiali o attraverso gli archivi che ci restituiscono sempre una rappresentazione mediatica, politica e sociale, ma guardando dal buco della serratura, volevo tenerli. Alla mia ragazza però non interessavano, e li buttò.
Poi noi ci siamo separate e io sono stata costretta a letto per quasi due anni a causa di una serie di problemi di salute, ma l’idea di quegli scatoloni buttati non mi abbandonava. Ho iniziato a fare ricerche, a studiare un po’ di letteratura secondaria sulla storia del cibo e mi sono resa conto che nessuno si era mai occupato di questi ricettari, perché naturalmente tutta la storia della gastronomia è scritta dagli uomini, e in particolare è scritta per le corti, per le famiglie borghesi. Il primo a rompere questo schema fu Artusi, che a me piace definire il primo blogger di cucina della storia: lui decise di scrivere un libro di ricette, ma non essendo un cuoco o un critico gastronomico decise di autoprodursi. La prima edizione ebbe un tale successo che per la seconda edizione si mise a raccogliere le ricette del suo pubblico, come potrebbe fare oggi un influencer con i suoi follower.
Poi arriva la Prima Guerra Mondiale e quando finisce ci troviamo in un momento storico in cui la donna rappresenta il fulcro non solo domestico ma anche economico, politico e sociale del nostro Paese, perché è lei che deve mettere al mondo i figli della razza italica- In questo contesto il cibo viene molto politicizzato e inizia a essere rappresentativo dello status fascista. Quindi appaiono i primi ricettari scritti dalle donne per le donne, ma sono intrisi della retorica fascista. Questi libri iniziano a essere comprati, diffusi nelle case, ma parallelamente sopravvivono i ricettari di famiglia. Ho provato a cercare della letteratura secondaria su queste fonti, ma non c’era, nessuno le aveva studiate. Ho cercato archivi che li raccogliessero, sono anche andata a parlare con il docente di storia dell’alimentazione dell’Università di Pollenzo, Simone Cinotto, e lui mi ha assicurato che non c’erano studi simili. Lui è l’unico che un po’ si è occupato di questa tradizione, ma non di quella manoscritta. E a quel punto ho capito che il formato digitale poteva essere la chiave di volta: io apro delle call, chi vuole mi porta il suo quaderno di ricette, io lo scansiono e lo restituisco nel giro di pochi minuti. E così preservo la fonte.
Archivio Ragù - Reti e Archivi del Gusto, per gentile concessione di Mila Fumini
Che tipo di materiale hai deciso di raccogliere? Ti sei data dei limiti geografici o temporali? E quanti ne hai raccolti finora?
Raccolgo tendenzialmente ricettari italiani dal dopoguerra, ma mi sono arrivate anche cose più antiche, soprattutto di emigrati italiani in altri paesi e li accolgo con grande interesse perché rappresentano una documentazione importante rispetto a una serie che vuole essere il più compatta possibile. Finora non ne ho raccolti moltissimi perché ho lanciato il progetto appena prima che iniziasse il covid, quindi ho approfittato di questi due anni per approfondire il formato elettronico da usare per creare la digital library. Studiando più a fondo il formato elettronico mi sono anche resa conto che mi piacerebbe riuscire a raccogliere i fondi per costruire un portale che permetta l’upload da parte degli utenti. Ora che si può tornare a fare cose sarò sempre in giro a raccogliere i ricettari. È un progetto che suscita molto entusiasmo, e questo è uno degli aspetti belli della public history: la storia che esce dall’egida dello specialista. La cosa di cui sono certa è che non diventerà un archivio fisico, un po’ perché io non avrei spazio per conservarlo, un po’ perché per me è importante che queste fonti personali rimangano nel loro alveo. Le digitalizzo e le restituisco subito.
Come ci dicevi anche all’inizio, per te è importante fare storia guardando dal buco della serratura. Da studiosa, qual è a tuo avviso il valore storico di questi documenti?
A me sembra che i contemporaneisti spesso abbiano un approccio un po’ troppo superficiale verso le fonti (così come chi si occupa di storia moderna ha un culto a volte eccessivo degli archivi), quindi ho riflettuto sul fatto che i ricettari sono delle fonti estremamente comuni, ma anche estremamente sottovalutate, e ho pensato di dargli importanza. Peraltro, noi probabilmente saremo le ultime generazioni a ricevere questo tipo di testimonianza da parte delle nostre famiglie. I ricettari ci vengono tramandati, ma non ne stiamo quasi più producendo. In generale, io sono convinta che il lavoro dello storico abbia un portato etico molto alto, ancora di più se ricostruisci la storia di chi non è colto, ancora di più se ti occupi di storia delle donne. La fonte, il racconto di chi non è passato sotto le luci della grande storia non è meno importante di Napoleone. È indagando la storia delle persone semplici, di chi non è stato raccontato, che ricostruisci il reale.
Archivio Ragù - Reti e Archivi del Gusto, per gentile concessione di Mila Fumini
E cosa ci raccontano dei tempi da cui provengono?
Ammetto che questo specifico tipo di fonte non è particolarmente parlante in sé, ma ci sono una serie di aspetti a latere dei quaderni che sono bellissimi, tipo il fatto che i fogli siano sporchi. I fogli sono sempre sporchi: anche quando sono in bella grafia, a volte addirittura con i disegnini per spiegare l’impiattamento, vicino ci sono le macchie di sugo, o il foglietto volante con la moltiplicazione di quella ricetta per venti persone. Oppure la ricetta della torta di mele e poi il foglietto con la torta di mele “della Lina”, oppure le indicazioni che ti spiegano dove reperire i vari ingredienti. Noi ormai siamo abituati a trovare tutto al supermercato, ma con questi ricettari puoi ricostruire la toponomastica dei luoghi da cui provengono, la storia della persona che li ha redatti. Per esempio, i primissimi ricettari mi sono arrivati dalle amiche di mia madre, quindi da vari borghi di Rimini: in pieno centro c’è il borgo dei vecchi marinai, non a caso i ricettari di Borgo S. Giuliano sono ricettari dedicati al pesce povero. Certo non sempre ci sono elementi sufficienti per fare questo tipo di ricostruzioni, ma intanto li leggi e tracci una strada, metti dei primi paletti. Come dicevo all’inizio, sono fonti perlopiù di persone non letterate, però all’interno si trovano cose molto belle, molto tenere. Per esempio, ho ricevuto un ricettario che all’interno aveva dei foglietti con le filastrocche che questa signora componeva ogni volta che preparava il pranzo per le festività della famiglia. Sono aspetti teneri, ma anche significativi per la ricostruzione della storia popolare. Ci sarebbero poi da indagare anche moltissime cose legate non solo alla ricettazione scritta, ma anche al gesto del cucinare: alla fine cucinare è un rituale, in cui anche come si fanno le cose e che strumenti si usano ha tantissimo da raccontare. Sono elementi che andrebbero studiati a livello antropologico. Per me Ragù è un progetto potenzialmente infinito.
Archivio Ragù - Reti e Archivi del Gusto, per gentile concessione di Mila Fumini
Ti sono capitati anche ricettari redatti da uomini?
Com’è facilmente intuibile, si tratta di fonti per la maggior parte redatte da donne e trasmesse nelle linee femminili delle famiglie, ma mi sono capitati anche due ricettari scritti da uomini: uno di un cuoco, che mi è stato portato da sua nipote; è il più affastellato e il più rovinato, perché veniva proprio usato in cucina, nel ristorante dello zio. E poi c’è stato un signore che mi ha portato il quaderno dello zio che era rimasto single e faceva un lavoro amministrativo, ma aveva questa grandissima passione per la cucina e preparava grandi pranzi e cene per la famiglia. Sono gli unici redatti da uomini che mi siano arrivati. Anche questo è un elemento di fascino di questa ricerca per me: a me appassionano sempre di più le fonti femminili perché la rappresentazione e la narrazione di sé che una donna dà in un contesto non istituzionale è sempre molto spontanea, molto empatica. E poi perché le fonti di donne sono veramente poche, bisogna andare a scovarle in questi documenti meno strutturati, più inconsapevoli.
Come dicevamo all’inizio, anche la storia della gastronomia è fatta di grandi mistificazioni. Riguardo all’evoluzione della donna nella società, ci sono delle tendenze che riesci già a identificare nei primi ricettari che hai raccolto?
Prima di poter trarre delle conclusioni avrei bisogno di avere sotto mano più fonti, ma posso dire che c’è una cosa che mi colpisce molto della storia culturale dell’Italia della fine del Novecento che si riflette anche nel presente e che secondo me si vede anche nella storia della cucina: in Italia a un certo punto nasce la tv privata, e nasce da un signore che ha bisogno di vendere i suoi appartamenti. Un signore che vuol far passare un’idea della donna e del femminile molto oggettificata. Questa cosa si incrocia con una serie di istanze che spingono a comprare dalla grande distribuzione. È una rappresentazione di genere nient’affatto casuale. Pensiamo per esempio all’espressione “la famiglia del Mulino Bianco”: ha una connotazione molto specifica, soprattutto per la donna. Questo secondo me in qualche modo si vede anche nei ricettari, nelle pubblicità del cibo, nei programmi di cucina. E si vede ancora oggi: Masterchef quest’anno era all’undicesima edizione e finora c’è stata solo una giudice donna; se guardi ai premi Michelin le donne premiate sono pochissime, soprattutto in Italia, eppure se vai in giro per il nostro Paese le donne che cucinano sono tantissime, veramente tantissime.
Mila Fumini è una ricercatrice presso il Dipartimento di Storia di Firenze. Si è formata tra Bologna, Trento, Torino e Roma specializzandosi nello studio degli ego-documents femminili in particolare religiosi in età moderna. Accanto a questa area di ricerca da alcuni anni si sta specializzando in Public and Digital History sempre con un’attenzione particolare riguardo alla storia delle donne e la traccia delle produzioni documentali dei semi-colti.
Cose belle che abbiamo letto in giro
In tutte le regioni italiane è cominciato un grande progetto per gli orfani dei femminicidi. È diviso in quattro grandi aree per la durata di 4 anni.
Un podcast dedicato alle storie di partigiane mis(s)conosciute.
Dare un nome all’abuso. Un’intervista a Belén López Peiró, l’autrice di Perché tornavi ogni estate.
Cosa sono i sad hot girl books.
Perché siamo sempre più soli (e facciamo così poco sesso)?
«Ho una bambina di sette mesi. Come posso assicurarmi che non faccia la mia stessa esperienza di body shaming?».
Beatrice Baldacci, una regista e sceneggiatrice, racconta una scena de La tana è il suo primo lungometraggio.
La restrizione del diritto all’aborto negli Stati Uniti è inevitabile?
Si torna a parlare di legge Zan.
Conversazione con Veronica Raimo, l’autrice di Niente di vero, tra i candidati al Premio Strega 2022.
Valeria Parrella rilegge Memorie di Adriano.
A presto,
Vuoi darci una mano?
Senza rossetto è un progetto a budget zero. Tutto il lavoro dietro al nostro podcast e a questa newsletter è volontario e non retribuito, ma è un lavoro che richiede molte forze e anche qualche soldo. Se vuoi aiutarci a sostenere le spese di produzione, incoraggiarci o anche solo offrirci una caffè puoi farlo attraverso PayPal usando la mail senzarossetto@querty.it, oppure puoi impostare una donazione ricorrente sul nostro profilo Patreon. Ogni aiuto sarà per noi prezioso, quindi grazie!
Seguici!
Il nostro sito è senzarossettopodcast.it, ma ci trovi anche su Querty.it, Facebook, Instagram e Twitter.
Se invece hai idee da proporci, suggerimenti da darci, segnalazioni da fare (anche queste, per noi, sono importanti) scrivici all'indirizzo senzarossetto@querty.it. E se questa newsletter ti è piaciuta, girala ai tuoi amici!