Uno degli effetti più strani di questo isolamento su di me, Giulia C, è il desiderio di rifugiarmi in ciò che conosco meglio: il passato. Per una serie di coincidenze mi sono trovata a vivere questa quarantena a casa dei miei genitori; la maggior parte del mio tempo la trascorro nella stanza dove ho trascorso anche la maggior parte della mia infanzia e della mia adolescenza, circondata da ricordi. I primi giorni mi ero ripromessa di approfittare di questo tempo dilatato per fare cose nuove: imparare a usare Photoshop come si deve, spuntare quella lista di libri arretrati (i pochi che sono riuscita a portare con me), ascoltare un po’ delle ultime uscite musicali. Ma nel giro di poco tempo mi sono ritrovata a sfogliare i diari del liceo, a rileggere interi capitoli dei miei Harry Potter preferiti, a guardare vecchie foto e ascoltare vecchia musica. Ho provato a interrogarmi su questa improvvisa retromania e alla fine sono giunta alla conclusione che questo è un momento eccezionale, e nessuno sa mai con anticipo come reagirà a uno stravolgimento simile della propria quotidianità. Mi sono rassegnata al fatto che in questi mesi da sola con ogni probabilità riguarderò film che ho già visto, rileggerò libri che ho già letto e non imparerò a fare niente di nuovo, ma forse alla fine avrò imparato qualcosa di nuovo su di me.
Ho letto un libro all’inizio di quest’anno, l’autobiografia del comico Lenny Bruce, e c’è una frase che mi è tornata in mente in questi giorni: «C’è solo quello che è. Quello che dovrebbe essere non c’è, non è mai esistito. Ma la gente continua a cerare di adeguarvisi. C’è solo ciò che è». Ecco.
Oggi c’è che vi teniamo compagnia con una riflessione di Carolina Capria, su questi giorni eccezionali e su quello che ci stanno insegnando. Un grazie speciale a Giulia Sagramola, che ci ha concesso di usare questa sua bella illustrazione per accompagnare la newsletter.
Illustrazione di Giulia Sagramola
Quel che resta di me
di Carolina Capria
Qualche settimana fa la mia casa di parole è crollata.
Non avevo mai riflettuto sulla possibilità che una cosa del genere potesse accadere, non l’avevo mai presa in considerazione. Del resto ci avevo messo anni a edificarla, e sono sempre stata molto attenta a monitorare ogni piccola crepa o cedimento - sapevo che senza quel rifugio mi sarei sentita smarrita.
La mia casa di parole fino a poche settimane fa era un posticino accogliente e familiare, mi ci muovevo con disinvoltura, mi sembrava fatta di mura salde e robuste, ambienti protetti.
La mia casa di parole, ora, non c’è più.
La prima a venire giù è stata la stanza della leggerezza. Guardandola franare mi sono detta che in fondo non era un problema, non la frequentavo quotidianamente dopotutto, e forse del cambiamento non mi sarei nemmeno più di tanto accorta.
Era fatta di parole solidissime, però: cinema, pizza, aperitivo, teatro, amiche e amici con cui chiacchierare di sciocchezze, passeggiate nelle serate di primavera, vestiti, scarpe e trucchi, cene nei ristoranti preferiti e a casa di amici con la tv accesa e nessuno ad ascoltarla, presentazioni di libri e gruppi di lettura, “ti va di andare a mangiare un gelato?”, sorrisi.
Quando ha ceduto riducendosi in macerie ho cercato subito riparo altrove, perfettamente consapevole di calzare le scarpe del privilegio e di far parte ancora delle persone che possono dirsi “fortunate”: ero in grado di rinunciare a un po’ di aria e di spazio, anzi, era mio dovere farlo.
La stanza delle piccole abitudini, per esempio, quello era il posto perfetto per starmene calma e buona in attesa di tempi migliori, e senza indugiare sono corsa lì. Mi sarei riposata, chissà, e avrei approfittato di quell’occasione per riscoprire qualche attività trascurata per mancanza di tempo, quelle che quotidiani e riviste elencavano frequentemente.
Ma la tranquillità è durata pochissimo, perché un’altra scossa, più forte della precedente, ha fatto tremare le pareti di mattoni, e non ho avuto altra scelta che coprirmi la testa alla bell’e meglio con le braccia e le mani e andare via più veloce che potevo.
Li ho visti cadere uno a uno: la spesa al mercato il sabato, gli abbracci, i baci e le carezze, il parco e le corse all’aria aperta col mio cane allegro, le fioriture e il verde che acceca, la gentilezza, le passeggiate da un capo all’altro della città fatte solo perché è passeggiando che si raggiunge sovente il buon umore, le poche frasi scambiate con sconosciuti a cui indicare una strada lì in fondo e poi a destra, la cortesia, i “Buongiorno, signorina” “Buongiorno a lei”.
Potevo fare a meno anche di quelle parole? Sì, potevo, ed era un sacrificio dovuto alla società malata e sofferente. Un sacrificio da fare senza opporre resistenza.
Mi era rimasto un posto, uno solo, lo stanzino in cui conservano le parole che descrivevano me.
Avrei ricavato un cantuccio tra gli scatoloni pieni di ciò che ero stata e di ciò che ero, e lì di certo mi sarei potuta fermare. Ma appena messo piede nell’ultimo luogo che credevo sicuro, mi sono accorta che le pareti scricchiolavano e che dal soffitto piovevano detriti di stucco. Non potevo trattenermi, non era quello il luogo che avrei fatto diventare della salvezza e dell’attesa.
Le cose che amavo e che allo stesso tempo mi riempivano e descrivevano, però, erano in quegli scatoloni ormai inaccessibili – l’amore per la lettura, romanzi, saggi, fumetti, il bisogno vitale di fare progetti e immaginare il futuro, film e serie televisive, spensieratezza, tempo rosicchiato agli impegni – e non ero certa di poter fare a meno di loro.
Ho avuto paura, e mi sono chiesta cosa restasse di me.
Sono rimasta immobile, pietrificata ad aspettare che una giornata passasse, e poi quella dopo, e quella dopo ancora, ora dopo ora, contando i minuti; come un computer in stand-by non ho consumato le limitate risorse di energie che possedevo. Era l’unico modo che conoscevo per sopravvivere.
Mentre la mia casa di parole crollava, una grandinata di termini nuovi si era abbattuta sul mio piccolo mondo.
Quarantena. Restrizioni. Zona rossa. Trincea. Mascherine e guanti. Contagio. Medici. Infermieri. Terapia intensiva. Numeri. Morti. Contenimento. Distanza. Sicurezza. Paura. Ospedale. Assembramenti. Isolamento. Ansia. Preoccupazione. Lontananza.
Non avevo fatto caso a queste parole, mi erano parse solo acqua ghiacciata che bagnava i capelli e gli occhiali, ma al momento erano l’unica cosa che possedevo e forse dovevo prenderle in mano e guardarle con attenzione.
Avrei potuto farne qualcosa? E se sì, cosa?
Allora ho cominciato a raccoglierle a ammonticchiarle creando delle forme che riconoscevo.
Le ho usate per costruire muretti bassi che mi permettessero di stare da sola ma vedere gli altri, sentire addirittura i loro sentimenti e le loro emozioni. Continuare a guardare le persone, ammirare la forza e la tenacia con cui ognuno cercava di non perdere il contatto con l’umanità.
C’era chi sfornava il pane e preparava torte, chi chiacchierava al telefono per ore con cari lontani o vicini, chi cantava affacciato alla finestra, chi leggeva su un minuscolo terrazzino inondato dal sole della primavera.
Chi piangeva, chi litigava, chi si lamentava di questo e di quello, chi rimproverava i passanti, chi si domandava quando tutto sarebbe finito e saremmo ritornati alla normalità, chi portava il cane sotto casa a far pipì, chi faceva la spesa per i vicini anziani.
Mi sono accorta di non essere sola, come invece mi sembrava, perché da dove mi trovavo potevo vedere tutti.
E allora, solo allora, mi sono fermata ad aspettare.
Qualcuno chissà dove nel silenzio stava suonando una chitarra.
Carolina Capria, nata a Cosenza nel 1980, vive e lavora a Milano, dove si occupa di narrativa per l’infanzia, pubblicando per Mondadori e Piemme. Su Facebook e Instagram ha creato L’ha scritto una femmina, uno spazio dove parla di libri e scrittrici. Nel mondo di “Piccole donne”. 15 parole per diventare grandi (DeAgostini, 2020) è il suo ultimo libro.
Cose belle che abbiamo letto in giro!
Il ruolo delle donne durante l’epidemia di Coronavirus in Cina.
In questi giorni, in cui siamo tutti costretti a casa, bisogna pensare anche a chi è meno fortunato di noi. Come coloro che sono vittima di violenza. O quelle donne di cui nessuno si preoccupa mai, come colf e badanti. Alla fine, i diritti delle donne ne escono malissimo da questa quarantena.
L’isolamento, disegnato.
Gli appuntamenti romantici ai tempi del lockdown.
C’è chi pretende di non fare proprio niente durante questo periodo: perché non accettare semplicemente di annoiarsi?
Per chi è alla ricerca di qualcosa da leggere.
Invece, per chi vuole ascoltare questo weekend: The Sex Ed con ospite Alessandro Michele di Gucci. Si parla di mascolinità, sensualità e molto altro. Ma anche #Coccinelle2020, il podcast delle cose belle di Querty, per mettersi un po’ di buon umore e iniziare bene la giornata. Siamo state anche noi ospiti di Matteo ed Elisa: abbiamo riso insieme delle bimbe di Giuseppe Conte e di tenere lontre. E se non li avete ancora ascoltati: sono disponibili ben due episodi speciali di Senza rossetto.
Hanno parlato di noi
Giusi Marchetta nel suo podcast Tutte le ragazze avanti!
il blog Amante di libri;
Qui si può rivedere il nostro intervento nel gruppo Scrittori a Domicilio, insieme a Chiara Palumbo;
ci consigliano anche come podcast per chi vuole imparare l’italiano.
Ci vediamo a…
Stiamo vivendo un momento complicato, ma per quanto possibile cerchiamo di inventarci un po’ di occasioni per incontrarci virtualmente e per chiacchierare comunque del nostro libro. A oggi i prossimi appuntamenti confermati sono:
Venerdì 3 aprile alle 18, saremo ospiti di una chiacchierata con La Lunatica Georgette. Per partecipare basta utilizzare Zoom usando il meeting ID: 153 381 106
Venerdì 10 aprile, andremo in diretta con Kube Community (presto vi daremo tutti i dettagli!)
Continuate a seguirci per altri aggiornamenti :)
A presto!
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