Quasi finito Sanremo, in Italia è il momento di un altro grande evento mediatico: la Settimana della Moda di Milano, che quest’anno si svolgerà tra il 18 e il 24 febbraio, dopo quelle di New York e Londra e prima di quella di Parigi, che si chiude il 4 marzo.
Parlare di donne, quando si parla di moda è quasi immediato, per tantissimi motivi: vuoi perché - nonostante una crescente attenzione per la materia anche nel mondo maschile - siamo ancora abituati a pensare che i “bei vestiti” siano cosa da femmine; vuoi perché le passerelle sono ancora uno dei luoghi più discriminanti per le donne, sia in termini di rappresentazione (il solito discorso delle modelle tutte magrissime, tutte bianchissime, tutte bellissime), sia in termini di rappresentanza: nonostante sia un’industria molto orientata al consumo femminile, anche nel mondo del fashion le donne restano relegate a ruoli subalterni e raramente ricoprono incarichi manageriali (questa, ad esempio, è una delle tante cose che racconteremo nel nostro libro Le ragazze stanno bene: esce il 5 marzo, l’avete già preordinato vero? Se no, potete rimediare subito).
Ma c’è un altro aspetto che rende interconnesso il discorso sulla moda e quello sulle donne: si tratta del crescente uso che grandi marchi di moda stanno facendo del messaggio femminista nella costruzione delle loro collezioni e della loro identità. La moda, si sa, si muove da sempre insieme ai cambiamenti culturali, a volte precorrendoli, altre assecondandoli, ma in questo caso quanto c’è di buono e quanto di marketing? Mentre aspettiamo di vedere cosa ci riserverà questa Fashion Week, ne parliamo con Anna Corraini.
Should We All Be Feminists?
di Anna Corraini
I Pussyhat di Missoni alla Milano Fashion Week 2017
Il mondo della moda è costellato di collezioni, capi e momenti dirompenti in cui il ruolo della donna è stato catalizzatore di sentimenti e sommosse sociali. Quanti di questi fanno parte di un sentimento ormai superficiale, di facciata, uno strumento di marketing per vendere di più facendoci sentire meglio e quanti sono invece smossi da una reale volontà di cambiare le cose?
Ogni volta che guardo una nuova collezione mi devo sforzare per non cadere in tranelli orditi con bellissimi pizzi e merletti; tendo sempre a vedere il buono, il giusto in ogni cosa, mossa da una viscerale felicità per questo tam tam mediatico nei confronti del femminismo.
La storia della moda e del costume ci ha dato numerosi esempi in cui i capi sono stati linguaggio e mezzo per un secondo livello di lettura legato alla condizione della donna. Pensiamo a Chanel, per noi classico simbolo intramontabile di stile, agli inizi del Novecento ha svincolato la donna da strutture e costrizioni sartoriali progettando capi pratici, semplici e comodi seppur eleganti. Una presa di posizione forte nei confronti delle possibilità delle donne: dopo quasi mezzo secolo di relativa pace, il mondo si è trovato infatti di fronte ad un conflitto senza precedenti; dalle fabbriche è nata una nuova consapevolezza delle proprie possibilità e dei propri diritti. La forza motrice sostituisce la forza muscolare, le donne si ritrovano a poter manovrare le stesse macchine degli uomini contribuendo alla produzione industriale. I loro armadi cambiano e sono un chiaro sintomo della situazione socio-politica del momento.
Il primo tuxedo firmato da Yves Saint Laurent, 1966
Negli anni Sessanta le nazioni si accorgono di cosa può portare l’abuso dei consumi inutili a danno dei beni necessari. In tanti si chiedono se ne valga la pena, guardando alla distruzione operata in tutti i valori non strettamente economici. Le nuove generazioni sembrano sbigottite e annoiate dal mondo e dalla vita programmata che gli veniva proposta. Qualcuno scrive sui muri della Sorbona “la fantasia al potere”. Durante questi anni di sommosse appaiono smoking costruiti per la donna grazie a Yves Saint Laurent che cambia completamente il concetto di femminile e ne costruisce uno nuovo: si fa spazio all’androgino, al garçonne, appaiono gambe rese libere da un taglio netto del tessuto, e dalla società, con la minigonna di Mary Quant. I colori delle calze lunghe iniziano a diventare scanzonati, dissonanti nei confronti di questo taglio infantile a metà coscia; divisa di una ragazzina che si rifiuta di crescere e che si vuole differenziare dal modello della propria madre.
Fortunatamente esistono esempi importanti nel nostro contemporaneo anche se non così dirompenti come in passato. Nelle sfilate vediamo sempre più spesso motti e frasi che incitano ad una presa di posizione - Dior con Maria Grazia Chiuri nel 2016 ha sfilato con una t-shirt con stampata la frase We Should All Be Feminists diventata in brevissimo tempo una delle magliette più desiderate e fotografate nel panorama vip/influencer.
La t-shirt di Maria Grazia Chiuri per la collezione Spring/Summer 2017 di Dior
Missoni per la collezione invernale 2017 ha sfilato con dei cappellini Pussyhat in maglia rosa, simbolo delle manifestazioni di protesta contro il sessismo di Trump e a favore delle Women’s March per dichiarare la necessità di parlare e ragionare sui diritti delle donne.
Prada, marchio storicamente forte nelle sue prese di posizione in ambito civile e politico, nella primavera estate 2018 realizza una collezione di donne per le donne, otto fumettiste disegnano il tessuto dei capi in collezione. Nel 2014 aveva già utilizzato gli elementi visivi come mezzo di un messaggio con l’opera In The Heart of the Moltitude dove writer, muralisti, come Miles El Mac MacGregor, Mesa, Gabriel Specter e Stinkfish insieme agli illustratori Detallante e Mornet avevano dipinto la location in cui si svolgeva la sfilata. Il tema affrontato riguardava la rappresentazione della femminilità che rivendica il proprio ruolo attivo e combattivo nel mondo.
Uno dei capi a fumetti della collezione Spring/Summer 2018 di Prada
Prabal Gurung nel 2017 ha fatto sfilare le sue modelle con t-shirt politicizzate a suon di motti come Revolution has no borders - I’m an immigrant - The future is female - uscendo lui stesso a fine collezione indossando una maglietta con scritto This is what a feminist look like. Il chiaro riferimento a Jane Lurie e Marizel Rios e alla loro libreria femminista a New York è sicuramente lodevole ed efficace, ma a mio parere perde forza nel momento in cui vediamo il reale costo di queste t-shirt in negozio. Un femminismo a pagamento e acquistabile solo da un facoltoso ceto.
Prabal Gurung e alcune modelle con la sua collezione di t-shirt nel 2017
Gli esempi sono infiniti, Desigual ha vestito l’attivista e modella Alek Wek come volto della sua campagna per la giornata interazione della donna; Gucci celebra la donna insieme alla poetessa Cleo Wade, L’Oréal sui propri canali social utilizza le storiche ambassador per raccontare cosa vuol dire essere donna oggi; Stella McCartney progetta stampe tipografiche che chiama Thanks Girls; Marios collabora con l’artista polacca Goshka Macuga; Pomellato, Rosato, e molti altri si aggiungono ad una lista di marchi e aziende che comunicano e pianificano all’interno dei loro contenuti e piani editoriali il tema della donna. Sono nate anche piattaforme digitali in tal senso come la famosissima Freeda (nonostante i continui richiami commerciali).
Alcune modelle indossano capi Thanks Girls di Stella McCartney nel 2017
Tutti corrono ai ripari mossi dallo scandalo Weinstein, dal movimento #metoo, dal discorso di quella santa di Meryl Streep ai Golden Globes come se fosse ormai imprescindibile schierarsi e produrre materiale al riguardo. Ma quanto di questo è marketing, vendita, volontà di uniformarsi, di essere dalla parte di quelli buoni e non essere additati, e quanto è realmente prodotto e fatto per cambiare le cose?
Come tutto quello che fa tendenza ormai il pinkwashing è un linguaggio anche nel mondo della moda e permette a tutte noi di acquistare un capo per sentirci più forti, fighe, con la coscienza pulita e corrette. Un po’ come è stato l’olio di palma o la ricerca spasmodica per il bio. Ormai se non sei femminista dichiarato e spudorato sei uno sfigato. E poi? Cosa sta succedendo? Facciamo davvero qualcosa di concreto o semplicemente sbandieriamo la nostra posizione?
Credo che il femminismo stia cambiando, si stia evolvendo in qualcosa di più intimo, personale, legato alle comunità che frequentiamo, alle piccole azioni quotidiane non a gesti plateali. Qualche settimana fa ho presentato un incontro in cui è stato detto “Il cambiamento non parte mai dalla lotta, ma parte da noi” e mi sono fermata a ragionare e a pensare se non fosse davvero meglio cambiare le cose nel piccolo per smuovere le fondamenta dalla base della struttura.
Uno dei miei riferimenti in tal senso è sicuramente Frida Affer (nonché autrice della citazione di qualche riga sopra), amica milanese conosciuta sotto cassa in una delle nostre serate folli nelle discoteche di Milano. Da qualche anno ha aperto un negozio di lingerie e sex toys intergenere, si chiama Wovo dove appena entri vedi due tette enormi disegnate da un neon. In realtà si tratta di qualcosa in più di un negozio, è un luogo sicuro in cui parlare del proprio corpo, di erotismo, di sessualità in maniera del tutto libera. Un piccolo salotto off line (e online, con tutti i loro canali social) in cui trovarsi, ri-trovarsi e sentirsi a casa. In questi anni è riuscita insieme al suo team a creare una comunità forte, che si supporta e che si vuole bene, ed è incredibile vedere in che toni e con che volontà tutte le persone all’interno di questa cerchia ne parlino volentieri e propositivamente verso l’esterno.
Fortunatamente sono cresciuta accanto ad un fratello che è stato intinto nel calderone del femminismo, come Obelix nella pozione magica. L’ho sempre visto fare piccole cose per le persone accanto a lui senza mai volere e pretendere indietro riconoscimenti, senza mai fare gesti plateali; seminando in tutte le nostre conoscenze e coscienze, me compresa. La comunità e la rete di sinergie e passaparola è sicuramente uno degli ingredienti fondamentali per parlare di donne.
Solo il tempo ci darà modo di vedere con lucidità questo movimento culturale strettamente interconnesso al mondo commerciale per poterne realmente valutare aspetti positivi e negativi. Sintomo sicuramente di un malcontento all’interno della società ma non ancora maturo nella sua presa di coscienza globale. Nel frattempo ognuno di noi può curare il proprio piccolo orticello e regalarne i semi al vicino.
Anna Corraini lavora come consulente e forma aziende e brand in merito alla loro comunicazione online e offline. Nel 2009 è diventata responsabile della redazione internet di Festivaletteratura Mantova dove coordina circa 100 volontari nella produzione dei materiali. Dal 2017 è docente universitaria di comunicazione, comunicazione digitale, fashion & textile presso IAAD Bologna. Mossa da una maniacale curiosità vive a metà tra il digitale e le cose impolverate, si perde nei mercatini, in alta montagna, tra i libri, nelle vie strette o consultando siti, sicuramente con una buona playlist che suona nelle orecchie. Collezionista di amenità e feticista di ogni oggetto di dubbio gusto, cerca sempre di mescolare elementi e gusti a prima vista inconciliabili.
Cose belle che abbiamo letto in giro!
Se dopo la prima puntata della terza stagione del nostro podcast avete voglia di risentire la voce di Bianca Pitzorno, date un’occhiata qui.
C’è un nuovo libro di Catherine Lacey, che parla di genere e origini in modo del tutto nuovo. E anche un bel libro di Nafissa Thompson-Spires edito da Black Coffee.
Billie Eilish sta sbaragliando tutto e tutti. Canterà anche agli Oscar, che si avvicinano: qui Roxane Gay ripercorre la storia delle donne nella storia dell’Academy.
Da vedere: un nuovo biopic e una serie ispirati alla vita di Gloria Steinem.
Cosa si dice di Luna Nera, la nuova serie italiana di Netflix, tratta dal primo romanzo della saga di Tiziana Triana per Sonzogno, che racconta una storia di streghe nel Lazio del Seicento. Intanto lunedì torna in tv L’amica geniale.
Dopo il discorso alla Camera di Filippo Sensi, Rivista Studio ha messo insieme un po’ di articoli che parlano di fat-shaming e body positivity. E sempre in tema, cinque libri che parlano dello spazio politico dei corpi delle donne.
La morte di Kobe Bryant ha riportato al centro del dibattito un tema molto importante: come si deve parlare di grandi personaggi accusati di molestie sessuali?
Una nuova serie del Guardian che analizza il gender gap sul lavoro, in politica e in molti altri ambiti della vita quotidiana negli Stati Uniti, e una riflessione sull’importanza delle donne più anziane nei posti di lavoro.
A presto!
Vuoi darci una mano?
Senza rossetto è un progetto a budget zero. Tutto il lavoro dietro al nostro podcast e a questa newsletter è volontario e non retribuito, ma è un lavoro che richiede molte forze e anche qualche soldo. Se vuoi aiutarci a sostenere le spese di produzione, incoraggiarci o anche solo offrirci una caffè puoi farlo attraverso PayPalusando la mail senzarossetto@querty.it, oppure puoi impostare una donazione ricorrente sul nostro profilo Patreon. Ogni aiuto sarà per noi prezioso, quindi grazie!
Seguici!
Il nostro sito è senzarossettopodcast.it, ma ci trovi anche su Querty.it, Facebook, Instagram e Twitter.
Se invece hai idee da proporci, suggerimenti da darci, segnalazioni da fare (anche queste, per noi, sono importanti) scrivici all'indirizzo senzarossetto@querty.it. E se questa newsletter ti è piaciuta, girala ai tuoi amici!