Qualche mese fa io, Giulia C, sono stata alla laurea di un amico (probabilmente una delle ultime di quelle a cui parteciperò, ché ormai anche gli amici iniziano a invecchiare). Dopo la proclamazione, Giacomo ha fatto la classica foto di rito con tutta la famiglia: nella foto c’erano due papà, due mamme, un nonno e tre sorelle nate da genitori diversi. Giacomo è cresciuto perlopiù con la mamma, Fausto (il compagno di sua madre) e due sorelle nate dal secondo matrimonio di sua madre, ma a festeggiare c’erano ovviamente anche suo papà, la sua nuova compagna e la figlia nata dalla loro unione. Mentre scattavano le foto, io me ne stavo in disparte bevendo prosecco, aspettando il turno della fotografia con gli amici e chiedendomi chi dei due uomini in posa fosse il famoso Fausto e chi il papà biologico di Giacomo, perché non li avevo mai incontrati prima. Poi ho pensato che tutto sommato cosa importava? La cosa importante era vedere quella grande famiglia strampalata stringersi felice sotto un ombrello per immortalare il momento di gioia di Giacomo, e ho brindato con loro.
Nella newsletter di oggi parliamo proprio di queste famiglie qui: queste famiglie ricostituite, allargate, mescolate, che in Italia (e nel mondo) sono sempre di più. E lo facciamo da un punto di vista che raramente viene ascoltato, quello delle donne che non hanno figli, ma per amore si trovano a crescere quelli degli altri: le matrigne, che sono molto più delle classiche streghe cattive delle favole, come ci racconta Arianna Cavallo.
Illustrazione di Elisa Lipari per Senza rossetto
Matrigne e streghe ieri, femministe oggi
di Arianna Cavallo
Era il compleanno del mio compagno ed eravamo a cena al giapponese coi bambini, per loro era la prima volta e facevano a gara a chi assaggiava più cose perché in palio c’erano le figurine dei Pokémon. Le sfide, le risate e l’atmosfera contenta e incasinata avevano attirato l’attenzione del tavolo affianco, con la trentenne dal viso dolce che mi fece i complimenti per come mi fossero venuti bene. Così, prevedendo il disagio di lei ma sperando nella soddisfazione dei piccoli, mi trovai a dirle che no, non erano miei: «Lui è il papà, è tutto merito suo e della mamma. Io sono la matrigna. Io sono la matrigna cattiva».
In Italia i divorzi e le separazioni sono in crescita, e alla famiglia tradizionale e nucleare – cioè composta da genitori e figli – si affiancheranno realtà sempre più complesse e intricate. Soltanto nel 2015, dicono i dati dell’Istat, 31.653 minori sono diventati figli di divorziati e 66.037 di separati, quasi centomila bambini in più in un anno. Nel biennio 2015-2016 i nuclei familiari monogenitoriali, cioè con un solo genitore affidatario, erano 1,34 milioni, il 15,8 per cento di tutte le famiglie con minori: un milione trecento quarantamila persone che avevano figli ma che non stavano più con la persona con cui li avevano fatti e che probabilmente avrebbero amato di nuovo qualcuno e l’avrebbero fatto entrare nelle loro vite. I loro bambini si troveranno ad affrontare i compagni di mamma e papà, i loro figli, le separazioni che potrebbero arrivare anche da questi rapporti, le nuove case, i fratelli in più.
Basta ascoltare le chiacchiere al bar o farsi un giro al parchetto il sabato pomeriggio per rendersi conto che queste famiglie strampalate sono sempre di più. Eppure mancano le parole per descriverle, così come mancano i film, i libri, le serie tv che le raccontino, normalizzandole e tranquillizzando il mondo intorno che non le conosce, o non le capisce. Qualche tempo fa mi lamentavo che «anche se conosco i piatti preferiti dei figli del mio ragazzo e ho i loro disegni appesi in casa, non merito un nome più gentile di “matrigna”; da grandi, se avremo un bel rapporto, mi chiameranno la “compagna di mio padre”, come se dopo anni a unirci fosse ancora solo lui, e non qualcosa che c’è tra noi. E se avessi un figlio, lo chiamerebbero fratellastro? E se anche la loro mamma ne avesse uno, questi bambini con due fratelli in comune, cosa sarebbero tra loro?».
Da allora non ho fatto molti passi avanti nella ricerca di una definizione adeguata, senza il sapore aspro di patrigni e figliastri e senza la mediazione del rapporto tra gli adulti. In Italia le nuove famiglie vengono chiamate “allargate” o, più seriosamente, “ricostituite”, nel mondo anglofono si usa un più clemente e spiritoso “blended families”, famiglie mescolate. La figlia piccola di un’amica chiama il nuovo compagno vice-papà; i bambini delle nuove famiglie che conosco, saltando i cavilli di parentela, si chiamano tra loro fratelli.
Uscire con un padre separato è l’ideale se vuoi un rapporto leggero, che non soffochi i tuoi spazi di libertà e che sani l’insicurezza, racconta Dana Hamilton su The Cut: sono uomini che conoscono il valore del tempo, lo riservano a te se gli interessi veramente, se lo sanno godere e lasciano alla tua indipendenza quello che dedicano ai bambini. Legarsi a un padre separato non è per deboli di cuore: ci vuole pazienza, cocciutaggine e abilità nello sdrammatizzare le rinunce. È impossibile evitare lontananza e incomprensioni, non c’è nessuno a dirti cosa fare e nei momenti bui ti ritrovi la preoccupazione dell’amica e le storie di insuccesso della posta del cuore e sui forum online: un susseguirsi di “non fate come me” alternati da aspri commenti “potevi pensarci prima di metterti con uno che ha figli”.
Anche il mondo culturale che di solito ti aiuta a navigare non aiuta. La matrigna di Fleabag, la serie tv “da donne” più acclamata del momento, – è lo stereotipo incarnato, odiosa senza scampo: sarà la vendetta catartica dell’autrice, Phoebe Waller-Bridge, figlia di divorziati. In The Marvelous Mrs. Maisel, una rivincita spiritosa e piena di grazia del talento femminile, la protagonista irrompe nella casa dell’ex marito e della sua nuova compagna (la giovane segretaria con cui lui l’ha tradita) tiranneggiandola e umiliandola con battute come «Facci attenzione alle segretarie, sai come sono» e «Ha un interruttore?». In una scena ingenerosa e ben poco femminista la fidanzata di papà è ritratta, a fronte di un’eroina moderna in cui tutte ci immedesimiamo, come negli anni Cinquanta: scialba, insicura e terrorizzata da un bambino piccolo. Ho persino scoperto una serie tv americana, Evil Stepmother, che romanza storie vere di matrigne cattive, che hanno ucciso o abusato dei figliastri. Mi rincuora la fantasia di Matthew Weiner, che ha immaginato in Megan di Mad Men la fidanzata-moglie-matrigna da sogno, o un prodotto ancora più vecchio, la striscia di fumetti Doonesbury disegnata da Garry Trudeau dagli anni Settanta. Qui c’è l’esempio migliore di matrigna a cui realisticamente aspirare: Kim Rosenthal è la seconda moglie del protagonista Mike Doonesbury, che è divorziato e ha una figlia, Alex; lei e Kim hanno 13 anni di differenza, molte cose in comune e un rapporto invidiabile, fatto di complicità e sostegno.
Eppure è un momento in cui di paternità e maternità si riflette tanto, tra blog, articoli sui giornali e libri, dagli Argonauti di Maggie Nelson, al recente Maternità di Sheila Heti, e sempre più donne raccontano il loro disagio e i loro dubbi sull’avere figli («tenere in braccio un bambino non era più naturale, lei non si sentiva più naturale nel farlo, era un test di femminilità e abilità mondane», scriveva già nel 1998 Lorrie Moore in Terrific Mother); alcune rivendicano con sbuffi liberatori la scelta di non averli, altre si struggono per averli avuti, come nelle storie raccolte in Pentirsi di essere madri dalla sociologa Orna Donath. Non trovo però punti di vista di chi forse i figli non li vuole o non sa se li vuole ma si ritrova a crescere a metà quelli degli altri. Per questo mi commuove la dedica di uno dei libri che per primo descrisse l’impresa durissima e straniante della maternità, A Life’s work di Rachel Cusk: «La mia figliastra, Molly Clarke, è una presenza tacita in queste pagine: spero che un giorno le leggerà, e ne sarà soddisfatta. Forse non si ricorderà di quel cupo venerdì notte in cui mi ha regalato la sua collana portafortuna, ma io sì».
Fino a non molto tempo fa le storie straripavano di matrigne, da quelle cattive delle fiabe ai surrogati materni alla Mary Poppins e alla Maria von Trapp, l’autrice dell’autobiografia che ispirò Tutti insieme appassionatamente. Un po’ perché molti bambini si ritrovavano presto senza mamma – morta giovane di parto, stenti e malattia – un po’ perché scrivere di matrigne era un modo velato e onesto di scrivere di madri, anzi della donna che sopravvive nella madre e combatte contro di lei: dalla volontà di non farti risucchiare dalla fame di un altro che hai la missione di accudire, fino alla rivalità abominevole con la propria figlia nel voler restare eternamente la più seducente, la più desiderata, la più bella. Non per niente la matrigna più celebre e crudele, quella di Biancaneve, nella prima versione della favola dei Grimm era la madre, che ordinava al cacciatore di portarle fegato e polmoni da divorare. Matrigne e streghe ieri, femministe oggi.
Le matrigne di oggi invece continuano a essere perseguitate dalla malvagità di un tempo, qualsiasi favola letta per la buonanotte diventa un campo minato e ce ne sono poche in cui riconoscersi. «Amo la mia figliastra, ma non amo essere una matrigna. È un lavoro sinistro – scrive la poetessa Sabrina Orah Mark sulla Paris Review – Se io ed Eve ci mettiamo davanti allo specchio, fianco a fianco, non ci vedo i nostri riflessi, ci vedo qualcosa di selvaggio e crudele. La pelle di una madre di serie B. Una punizione per amare quello che non ti appartiene». A volte, spesso, il peccato è l’opposto di un tempo: non sei chiamata a sostituire una madre che non c’è più ma a inventare, all’improvviso, acrobaticamente, qualcuno di nuovo. Sempre Mark racconta di aver avuto un figlio con il padre di Eve, e di indossarne il nome con una catenina d’oro al collo. Un giorno un’amica le suggerisce di aggiungere anche quello di Eve: «il mio stomaco va sottosopra. “Non so se ho il diritto di indossare il suo nome”. Non sono una ladra né una dal sangue freddo. “Sua madre non è morta. Sua madre ha un collo”».
Arianna Cavallo è giornalista del Post, dove scrive soprattutto di moda, cibo, libri e fotografia. Prima di diventare giornalista ha lavorato in agenzie di stampa e in una fondazione per i diritti delle persone LGBT. Nata a Udine, laureata a Roma, ora è milanese; ha 35 anni. Su Instagram è @ariannacavallo.
Cose belle che abbiamo letto in giro!
Una delle cose di cui più stiamo parlando in questi giorni: Game of Thrones (e i suoi personaggi femminili pazzeschi, tipo Sansa). Ma è una serie che si può considerare femminista?
Altri due show da recuperare: Gentleman Jack e Killing Eve.
L’avete poi visto Homecoming?
Non è vero che le donne non possono essere amiche e collaborative tra di loro: alcune delle nuove narrazioni raccontano proprio questo.
La stand-up comedy si sta diffondendo anche nel nostro Paese: ci sono comiche da tenere d’occhio?
La questione dell’educazione sessuale nelle scuole, nell’epoca Trump. Nel frattempo le donne nere americane iniziano a farsi sentire in vista delle elezioni del 2020: saranno una fetta importante di elettorato. E mentre aspettiamo, possiamo guardare il documentario sulla scalata al Congresso di quattro deputate, tra cui Alexandria Ocasio-Cortez.
Le elezioni europee si avvicinano e sembra che sia alto il numero di elettrici che voteranno a destra: perché?
Perché i peli sotto le ascelle delle donne generano ancora così tanto dibattito?
Ci hanno insegnato a essere sempre educate, a parlare a voce bassa: ma per fortuna le cose stanno cambiando.
Sta per arrivare il primo museo della vagina.
È uscito il nuovo libro di Ilaria Gaspari, grande amica di Senza rossetto (potete riascoltare la puntata che scrisse per noi, durante la seconda stagione, qui).
A presto!
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