Quando abbiamo pensato questa newsletter credevamo che proprio in questi giorni si sarebbe corso il Giro d’Italia. Invece poi è arrivato il coronavirus, il Giro è stato rimandato a ottobre 2020 e il resto ormai lo conosciamo fin troppo bene.
Anche questo è un piccolo stravolgimento delle nostre abitudini: normalmente con questa newsletter ci piace cogliere delle occasioni, celebrare delle ricorrenze, raccontare le cose giuste al momento giusto, ma purtroppo in questi mesi non è stato sempre possibile. Abbiamo cambiato molte cose in corsa, cercando di parlare a modo nostro di quello che ci succedeva intorno. Ora sembra che, molto piano, si stia tornando a una certa normalità e ci proviamo anche noi.
Ecco perché, anche se il Giro non si corre, oggi parliamo di sport (e di donne, ovviamente) in un pezzo che vi racconta qualche bella storia di grandi atlete del passato per arrivare ai giorni nostri e domandarsi come mai, ancora adesso, sia così difficile associare le discipline sportive femminili al professionismo. Che poi è una questione sempre valida, non solo mentre si corre il Giro d’Italia. L’ha scritto per noi Anna Scapocchin e l’ha illustrato Giulia Cassandra Cianca.
Illustrazione di Giulia Cassandra Cianca per Senza rossetto
Donne fuorigioco
di Anna Scapocchin
Nel 440 a. C. durante i Giochi Olimpici si eseguivano “test di femminilità” per evitare che le donne si travestissero da uomini pur di partecipare alle gare. Le donne, infatti, non potevano partecipare ai Giochi, con una sola eccezione: le corse dei carri. Il ruolo dell’auriga era riservato agli uomini, ma le donne potevano essere organizzatrici o finanziatrici delle squadre partecipanti: le presidenti delle squadre, diremmo oggi. La prima donna in questo ruolo a vincere una corsa di carri fu la principessa Cinisca di Sparta, nel 396 e 392 a.C.
Anche se spesso non ce ne rendiamo conto, le questioni di genere e il concetto di mascolinità e femminilità sono parte importantissima anche nel discorso sportivo. Gli uomini che non amano lo sport sono spesso considerati poco virili, mentre per le donne la passione per lo sport è sempre vista come una minaccia all’idea convenzionale di femminilità. Muscoli? Forza? Una vera e propria violenza al corpo femminile.
Dopo millenni e millenni di esclusione, lo sport inizia ad aprirsi alle donne solo dalla seconda metà dell’800. Nel 1867 in Italia nasce il primo corso di ginnastica dedicato alle donne, ma solo per maestre e signorine di buona famiglia. Proprio in quegli anni (il primo corso di ginnastica per uomini risale al 1847) la ginnastica aveva iniziato ad assumere un’importanza pedagogica e a entrare nelle scuole, anche se per esigenze in larga parte militari, così la Società Ginnastica di Torino pensò di realizzare un corso di ginnastica preparatoria femminile con lo scopo di formare le future maestre di educazione fisica. All’epoca si stentava a credere che le donne potessero essere portate per l’attività sportiva, ma si pensava che l’esercizio fisico potesse aiutarle a sviluppare capacità utili per la loro funzione principale: la riproduzione. Il motto era: donne più sane, madri più prolifiche!
Nella corso della storia le grandi atlete non sono mancate, ma spesso lo sono state perché lo hanno deciso, non di certo perché il mondo dello sport come è stato concepito finora glielo abbia permesso). Per secoli la narrazione sportiva ha costruito e riproposto un immaginario rigido, stereotipato e omologato, in cui lo spazio per le imprese femminili era (e resta) ai margini. Per fortuna c’è chi si è presa questo spazio.
La modenese Alfonsina Strada era soprannominata il “diavolo in gonnella”. Osteggiata dalla famiglia per la sua passione per il ciclismo, diceva: vi farò vedere io se le donne non sanno stare in bicicletta come gli uomini. Nel 1924 fu in assoluto la prima donna a partecipare al Giro d’Italia. Quell’anno partirono in 90 corridori, conclusero il Giro in 30: Alfonsina era una di loro. Negli anni successivi non le fu permesso di iscriversi, ma decise di partecipare lo stesso percorrendo autonomamente alcune tappe. È considerata tra le pioniere che si batterono per la parità di donne e uomini nello sport.
Illustrazione di Giulia Cassandra Cianca per Senza rossetto
Negli stessi anni in cui Alfonsina correva in bicicletta nacque anche la prima squadra italiana di calcio femminile. Il Gruppo Femminile Calcistico nacque a Milano nel 1933, più come un esperimento. Il loro manifesto, infatti, suonava come una sfida: si può essere signorine per bene e da casa e praticare al puro scopo ginnastico lo sport del calcio. In porta però ci stavano due uomini: si temeva che le ragazze potessero subire danni al ventre e mettere a rischio il loro futuro (di madri, ovviamente).
Il Gruppo Femminile Calcistico divenne un vero e proprio caso mediatico: alcune testate giornalistiche lodavano queste trenta calciatrici, altre invece mostravano una certa titubanza nel vedere delle ragazze praticare uno sport così virile. Eppure una delle attaccanti, Rosetta Boccalini, nel 1933, affermava con veemenza: amo moltissimo il giuoco del calcio, un amore tenace il mio, non un fuoco di paglia. Le mie compagne hanno tanta passione e buona volontà: non tramonteremo mai. Pochi mesi dopo, il Gruppo venne sciolto. La giustificazione? Una donna che corre dietro a un pallone non si sposava con l’idea di moglie e madre che il fascismo propagandava.
Spostiamoci a Berlino, pochi anni dopo, nel 1936: Trebisonda Valla è la prima donna italiana a vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi. Già a 13 anni Trebisonda, detta Ondina, era considerata una promessa dell’atletica italiana ed era stata convocata anche per i Giochi Olimpici di Los Angeles del 1932, ma il Vaticano si oppose: una donna, da sola, non poteva affrontare un viaggio così lungo in una spedizione totalmente maschile! Dopo la vittoria olimpica divenne un’eroina per tutte le ragazze italiane e il governo fascista la definì un “simbolo della sana e robusta gioventù nazionale”. Ondina contribuì a una maggiore tolleranza del Regime riguardo la partecipazione delle donne alle attività sportive.
Ma parliamo di novant’anni fa, direte. Nel frattempo sono cambiate tante cose, la società si è evoluta e con essa anche lo sport. Se guardiamo al ciclismo di Alfonsina Strada, scopriamo che il Giro d’Italia femminile è nato solo nel 1988. A oggi, è la corsa internazionale più lunga e con caratteristiche tecniche assimilabili a quelle delle grandi corse a tappe maschili, ma in termini economici le vincite sono ancora molto squilibrate: nel 2019 la vincitrice del Giro ha ricevuto un montepremi di 6.000 euro, il vincitore di quello maschile invece ha portato a casa 265.000 euro. A quasi un secolo di distanza dalle imprese di Alfonsina Strada, l’importanza simbolica del ciclismo come sport di emancipazione femminile è ancora molto forte in tutto il mondo: pensate che nel 2016 le squadra femminile di ciclismo afgana è stata nominata al Premio Nobel per la Pace per il coraggio e la fermezza nello sfidare le normative di genere nel loro paese.
Ma pensiamo allo sport più seguito al mondo, sicuramente in Italia: il calcio. Il primo campionato ufficiale di calcio femminile in Italia risale al 1986 (anche se esiste ufficiosamente dal 1968), mentre la prima Coppa del Mondo femminile solo al 1991. Nell’ultimo Mondiale, la squadra vincitrice maschile ha intascato 38 milioni di dollari, mentre quella femminile 4 milioni. È stata la Norvegia, nel 2017, la prima federazione calcistica a riconoscere una uguale retribuzione alla squadra maschile e a quella femminile (prima le donne guadagnavano il 50% in meno anche qui).
A livello olimpico, invece, le discipline femminili sono state ammesse già dal 1900, ma erano solo il tennis e il golf. Per vedere le atlete partecipare in tutti gli sport in programma ci sono volute le Olimpiadi di Londra del 2012. Lo stereotipo dello sport come rischioso per la salute femminile, però, non è ancora del tutto superato: per esempio, il salto con sci femminile è stato riconosciuto come sport olimpico solo nel 2014, perché per più di un secolo sono state sollevate perplessità riguardo all’impatto di questa disciplina sull’utero femminile. Anche la rappresentanza femminile alle Olimpiadi è ancora problematica: a Rio nel 2016 solo il 45% dei/delle partecipanti era donna; per Tokyo 2020 (olimpiade slittata al 2021 a causa della pandemia di Coronavirus) il Comitato Olimpico Internazionale si è impegnato ad avere il 50% di atlete.
Oggi lo sport e l’attività fisica sono un vero e proprio sistema simbolico attorno a cui orbitano economia, politica, mass media, salute, benessere, cultura, identità sociale, valori, e anche, come dicevamo all’inizio, la dimensione di genere. Considerando quest’ultimo aspetto, sorge uno dei più grandi problemi dell’universo sportivo: il complicato rapporto tra professionismo e genere. Lo sport professionistico viene definito tale se sono presenti quattro elementi: regole e norme che ne consentono la pratica; l’idea che l’impiego e lo sviluppo di abilità fisiche e intellettuali siano l’attività principale dell’atleta, che viene retribuito per farlo; la presenza di competizioni e gare; il coinvolgimento di media, sponsor, pubblico nell’organizzazione delle competizioni.
Come abbiamo visto poco fa, in Italia e nel mondo il professionismo sportivo femminile è ancora ben lontano dall’essere riconosciuto, sia in termini economici che simbolici. Perché, se la definizione di professionismo è così chiara? La risposta è legata al secondo punto e rimanda a una visione culturale del ruolo della donna nella nostra società e alle aspettative sociali che ne gravitano attorno: lo sport non è una professione adatta a te, perché sei donna (un po’ come nel 1933!). L’attività fisica per le donne è al massimo un hobby, un tenersi-in-forma, ma non può essere il loro lavoro e quindi non possono essere pagate per farlo. Quando si accostano genere e sport, non si valutano solo le abilità fisiche e le caratteristiche tecniche, ma spesso si mettono sul tavolo modelli di comportamento e stereotipi considerati appropriati per un genere piuttosto che per l’altro.
Carolina Morace, il nome di punta del calcio femminile degli anni Novanta, nel suo libro La prima punta (People, 2019) centra il punto: Lo sport è uno strumento di dialogo e di scambio potentissimo, che rappresenta e dà voce a cambiamenti sociali e culturali spesso addirittura prima che si sia formata una consapevolezza diffusa rispetto a questi stessi cambiamenti.
Al professionismo si collegano sicurezza sul lavoro, pensione, congedo di maternità, tutela infortunistica, retribuzione equa, attrezzature e impianti adeguati, qualità dell’allenamento, accesso ai ruoli dirigenziali. Riconoscere quello femminile vorrebbe dire riconoscere – non solo da punto di vista culturale, ma anche dei diritti – la possibilità delle donne di ricoprire quel determinato ruolo, di svolgere quel determinato compito. Affermare una parità di trattamento – e ripeto, di diritti – che nel mondo del lavoro in generale non c’è. Creerebbe uno storico troppo forte da poter nascondere, un modello da cui prendere spunto.
E quindi in Italia cosa si sta facendo a riguardo? Se la legge sul professionismo sportivo (maschile) risale al 1981, l’introduzione di quella sul professionismo femminile è ancora molto dibattuta. Moltissime sportive e associazioni come Assist – Associazione Nazionale Atlete – lavorano da anni sul tema per chiedere alle Federazioni, al Coni e allo Stato Italiano di agire concretamente sull’ordinamento sportivo italiano. Negli ultimi mesi del 2019 è stato inserito nella Legge di Bilancio 2019 un emendamento che prevede tre anni di sgravio fiscale alle associazioni sportive che stipulano con le atlete contratti di lavoro di professionismo sportivo. È certamente un piccolo – piccolissimo – passo in avanti, ma non risolve la questione: la palla passa infatti ai decreti attuativi che verranno pensati all’interno della Legge Delega sullo Sport che doveva essere discussa entro marzo 2020, ma slittata a luglio a causa dell’emergenza sanitaria Covid-19. Molti degli addetti/e si stanno già chiedendo: dopo questi tre anni cosa succederà?
La questione è certamente complessa, legittima quanto urgente: servono cambiamenti legislativi, strutturali e non episodici, che affermino i diritti delle sportive e, di pari passo, un cambiamento culturale che spezzi stereotipi e pregiudizi. Perché se lo sport, come diceva Nelson Mandela, è capace di cambiare il mondo, forse potrebbe essere la chiave di svolta per garantire inclusione e uguaglianza e compiere finalmente una democrazia paritaria, nello sport e in tutti gli ambiti della vita sociale.
Anna Scapocchin, sociologa, nata a Padova nel 1993, vive e lavora a Modena, dove collabora con il Centro documentazione donna nei progetti di educazione alle differenze e prevenzione alla violenza di genere nelle scuole. Potete seguirla su Instagram e su Facebook.
Cose belle che abbiamo letto in giro!
Visto che abbiamo parlato di sport: ecco la prima donna al cui nome sarà dedicato uno stadio di atletica.
La vicenda di Silvia Romano ci ricorda, ancora una volta, che l’Italia è un paese sessista. E che è difficile spegnere il mostro che c’è dentro di noi.
Si discute di donne nella task force del governo e, quindi, si torna a parlare di quote rosa.
Storia di aborti spontanei e della difficoltà di parlarne.
Cose da vedere: Mrs America; Shirley con Elisabeth Moss; Becoming di Michelle Obama diventa un documentario.
Cose da leggere: Marilynne Robinson; libri scritti da donne musulmane e altrettanti scritti da autrici irlandesi (perché non c’è solo Sally Rooney).
Cose da ascoltare: Tori Amos.
Se ci fate caso, spesso nei film è rappresentato solo un certo tipo di donna nera.
L’eredità letteraria e femminista di Pamela Moore.
Essere un’attivista e una leader femminista, in tempi di Coronavirus. E, a proposito di attivismo, è appena nato un progetto dedicato a sensibilizzare contro revenge porn.
A presto!
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