Nella storia di questa newsletter abbiamo già parlato in precedenza di poste del cuore. Era successo nel 2017 con Ester Viola, ormai veterana di diverse rubriche sull’amore e grande dispensatrice di consigli ironici.
A lei avevamo chiesto, a un certo punto dell’intervista, come mai tra i generi giornalistici che non invecchiano mai c’è proprio la posta del cuore. Questa la sua risposta: «Perché nei periodi faticosi – cioè quattro giorni su sette, ogni settimana – i tuoi unici desideri si riducono ai seguenti due: il primo è qualcuno che ti spieghi perché i fatti tuoi non prendono un verso meno storto. E quindi, data come premessa una certa simpatia per il dispensatore di consigli, i consigli piacciono a tutti. Non per seguirli, ma almeno per dire che sai la teoria».
Oggi torniamo a parlare di posta del cuore con una giovane firma di Domani, che a partire dalla sua esperienza personale ci racconta il motivo per cui questo genere ha e avrà vita lunga (soprattutto quando dall’altra parte dello schermo c’è una Pilotti!).
Buona lettura!
Illustrazione di Chiara Brazzale per Senza rossetto
Gioventù bruciacchiata
di Giulia Pilotti
Nell’estate tra la seconda e la terza media, andai in vacanza con il gruppo della parrocchia. Dovrei dire con un gruppo di una parrocchia, perché io il catechismo non lo frequentavo – mio padre mi aveva convinto che Dio era John Belushi con la toga – e quella parrocchia era una parrocchia qualsiasi, non la mia. La frequentava una mia compagna di classe che aveva invitato me e un’altra amica – un’altra miscredente senza parrocchia – a passare una settimana con lei, altri prepuberi e un gruppo di suore in una pensione di Marina di Massa. Non so dire cosa mi spinse ad accettare, se non il brivido di passare 7 giorni senza nessun membro della mia famiglia per la prima volta nella mia vita, ma fatto sta che misi un paio di ciabatte e molto deodorante in valigia e partii senza guardarmi indietro.
A Marina di Massa si andava a messa non una, ma due volte al giorno, il che voleva dire che per due volte al giorno io e quell’altra muovevamo la bocca su canzoni e preghiere senza emettere suoni, pregando solo di non essere scoperte dalla suora cattiva. Per il resto del tempo ci dedicavamo ad attività più o meno ricreative. In sostanza eravamo tutti impegnati a nascondere qualcosa: i maschi dovevano fare i conti con erezioni incontrollabili, che sceglievano di dissimulare dichiarando un’improvvisa voglia di fare un bagno proprio nel mezzo di una partita di beach volley e correndo disperatamente verso l’acqua. Noi ragazze, tuttavia, avevamo altro a cui pensare: prime smagliature, primi buchi di cellulite, tette piccole, tette grosse. Tutto era fonte di imbarazzo, tutto andava coperto.
E poi c’era Sebastiano.
Sebastiano era un tredicenne ormonale fuori controllo, e come se non avesse già una personalità abbastanza cazzo-centrica portava anche il cognome di un uccello. Sebastiano non si teneva: cercava ossessivamente il contatto con le ragazze, toccava culi, tirava gavettoni, e incurante delle suore tormentava tutte le femmine che aveva a tiro. Tutte tranne me.
Io all’epoca ero una canna di bambu con la riga in mezzo (ora sono più un pioppo con la riga in mezzo) e di ormoni ne avevo pochissimi, ma non mi sarebbe dispiaciuto suscitare anche un minimo interesse, anche nel più disgustoso dei maschi. Invece in quell’estate, mentre le mie amiche e le loro tettone venivano da me a lamentarsi delle attenzioni indesiderate di Sebastiano Uccello, io mi consolidavo nel ruolo che poi mi sarei portata dietro per tutta la vita e che nel tempo avrei persino imparato a fatturare. Diventavo per sempre l’affidabile, noiosa confidente, osservatrice esterna di avventure altrui.
Ho avuto diversi gruppi di amiche in 30 anni e in nessuno di questi sono mai stata quella simpatica. Mi sarebbe tanto piaciuto essere quella che appena arriva ti svolta una festa, o quella che cambia un fidanzato a settimana e ha sempre mille storie da raccontare, o quella che si tuffa dallo scoglio più alto e fa la capriola senza mani sui tappeti elastici. Mi sarebbe andato bene anche essere l’amica esperta di geopolitica che ti tira le pezze sul Tibet, o la zinnona che non capisce niente di Mean Girls, invece no, non so niente, ho il passato sessuale di una signora di paese degli Anni 30, sui tappeti elastici ci camminavo e nessuno a nessuna festa ha mai pronunciato la frase “ci vorrebbe la Pilotti”. Posso fare tranquillamente a meno del reggiseno.
Sono l’amica che tutti odiano, quella coscienziosa a cui ti rivolgi indifferentemente per scegliere un comodino, decidere se tagliarti la frangia o licenziarti. Sono Nonna Salice di Pocahontas, un vecchio albero secco e ben radicato.
Ci sono circostanze in cui quest’indole temperata (mi deprimo solo a scriverlo) può tornare utile. Essere una persona equilibrata è in generale un buon asset per funzionare nella società e costruire rapporti duraturi con individui altrettanto pallosi. Ormai me ne sono fatta una ragione e, come dicevo, ho trovato il modo di lucrare su questa mia fastidiosa tendenza all’oblatività. Da circa un anno rispondo alle lettere dei lettori di Domani che cercano consiglio per i loro problemi sentimentali.
Quando ho accettato l’incarico mi sono chiesta perché una persona che non mi conosce, e con cui non condivido una stanza di una pensione di Marina di Massa, dovesse scrivere a me, in che modo la scarsa esperienza di vita di una trentenne dalla gioventù bruciacchiata potesse risultare utile a qualcuno, e sinceramente ad oggi non ho una risposta del tutto soddisfacente. Posso solo dire che nella mia vita ho letto abbastanza risposte di nostra signora Natalia Aspesi – che negli anni ha sostituito John Belushi con la toga – per aver imparato quantomeno a simulare una saggezza superiore. E poi uno dei vantaggi di non combinare mai niente e di essere Nonna Salice è che ho una bussola interna abbastanza precisa, che di solito mi permette di trovare una strada, se non perfettamente retta, almeno di buonsenso (in caso contrario do risposte democristiane e paracule o consiglio un giro dallo psicologo, che a differenza mia non è gratis, ma è ben più equipaggiato affrontare questioni più serie di un paio di corna). Di bussole morali sono totalmente sprovvista, e anche questo penso aiuti: non giudicare è la prima regola di questo fight club.
Mentre settimana dopo settimana una mappa sentimentale dei nostri tempi prende forma sotto i miei occhi (costringendomi a fare i conti con il mio perenne senso di inadeguatezza), giungo alla conclusione che il mondo va avanti, l’umanità evolve, la natura dei problemi del primo mondo forse cambia e si fa sempre più microscopica e specifica, ma resta il fatto che siamo tutti fatti al 70% d’acqua e al 30% di paranoie. Quante volte l’abbiamo letto che le nuove generazioni sono sempre più fragili? Che la pandemia ha cambiato per sempre i nostri equilibri, non solo di coppia? Che la salute mentale deve essere portata al centro del discorso? Non so se tutto questo sia vero o se adesso si presti semplicemente più attenzione al tema – è un po’ la storia dell’uovo e la gallina: viene prima il patema o la sua disamina? – ma è senz’altro vero che stiamo tutti aggiungendo al nostro vocabolario le parole giuste per parlarne. I maschi eterosessuali, i Sebastiani del mondo, stanno familiarizzando con la propria interiorità e sanno verbalizzarla molto meglio di quanto mi sarei mai aspettata (con mia grande sorpresa la maggior parte delle lettere arriva da loro). Chi non sembra avere alcun bisogno del mio aiuto è invece la comunità LGBTQI+, da cui non mi arrivano richieste, forse perché tendono a conoscersi meglio, ad autoanalizzarsi prima, o forse perché hanno, comprensibilmente altre priorità. Quelle che non si smentiscono mai sono invece le coppie etero, i cui problemucci sopravvivono a tutto, alle glaciazioni, alle guerre, alle rivoluzioni digitali. Ci sarà stato senza dubbio un Cro-Magnon che nel 30.000 a.C. già si preoccupava di chi fra lui e la sua compagna avrebbe detto “ti amo” per primo, mentre lei si lamentava delle pelli di animale lasciate in terra accanto al letto.
Comunque sia, si dà molto – troppo? – spazio alla sensibilità individuale nell’universo in cui viviamo, cioè quello dominato dai social. Lo trovo un meccanismo un po’ perverso: i social sono anche all’origine di molti dei problemi che finiscono per assillarci. Ma di chiunque sia la colpa, di poste del cuore sembra esserci sempre grande bisogno. Alla modalità novecentesca della lettera al giornale (adeguata a un vecchio salice piangente come me), si affiancano infinite rubriche analoghe su Instagram, sia di creator sgamati e più o meno empatici, che di psicologi professionisti. Questo riesce a coniugare le nostre solitudini con la voglia di entrare in contatto con la celebrità, cosa che a me, con la mia anonimità, ovviamente non succede, non venendo io riconosciuta spesso neanche da persone con cui ho passato pomeriggi interi. E infatti io ricevo in un mese le confessioni che un box domande medio riceve in 2 minuti netti. «Ma questi non ce l’hanno un amico con cui parlare?» mi ha chiesto l’altro giorno mia nonna, scettica. Il fatto è che a volte confidarsi con uno sconosciuto è più semplice, dovrebbe capirlo molto bene lei che ha passato tutta la vita a confessarsi in chiesa. Che cos’è un confessionale se non una posta del cuore che non fa ridere? E poi forse chi ci conosce non può non giudicarci: per alcuni è più facile denudarsi davanti a un passante che al proprio migliore amico. Siamo cresciuti, siamo cambiati, abbiamo imparato, ma alla fine siamo ancora tutti impegnati a nascondere qualcosa.
Giulia Pilotti vive a Milano, dove lavora in un’agenzia letteraria. Scrive per Domani, per cui cura la posta del cuore, e collabora come ghostwriter con diverse case editrici.
Cose belle che abbiamo letto in giro
A fine maggio inizia il corso di Feltrinelli Education “Digital media per l'editoria: social, newsletter e podcast per comunicare i libri in rete" con Veronica Giuffré. Noi contribuiremo al modulo dedicato alle newsletter, raccontando la nostra esperienza. Per i primi iscritti c’è anche un prezzo speciale, qui trovate tutte le informazioni utili.
A 44 anni dall’entrata in vigore della Legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, una ricerca dell’Associazione Luca Coscioni ha dimostrato che in Italia ci sono almeno 31 strutture sanitarie con il 100% di personale sanitario obiettore di coscienza.
In Spagna si sta discutendo la possibilità di introdurre un congedo mestruale retribuito di tre giorni.
Su Valigia Blu, Alice Facchini riflette sui casi di molestie sessuali durante l’ultimo raduno degli Alpini a Rimini.
In guerra anche lo stupro diventa un’arma: un documentario.
Qualche uscita editoriale da segnalare: Linea nigra di Jazmina Barrera (La Nuova Frontiera), La cronologia dell’acqua di Lidia Yuknavitch (Nottetempo) e poi il nuovo romanzo di Jennifer Egan, La casa di marzapane (Mondadori). E a inizio giugno arriva questo: L’arte di essere Raffaella Carrà di Paolo Armelli per Blackie Edizioni.
Lo scorso 17 maggio è stata la Giornata internazionale contro l’omolesbobitransfobia, qui il Guardian ha raccolto le 10 migliori storie d’amore trans.
Addio a Grace e Frankie, su Netflix sono arrivati gli ultimi episodi dell’ultima stagione.
Durante il weekend siamo a Torino per il Salone del Libro, ci vediamo lì?
A presto,
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