Non so dove foste voi il 15 agosto scorso. Io (Giulia C.) ero a casa nel letto, distrutta dal caldo e da una notte di festa. Guardavo finalmente Inside di Bo Burnham e mi sentivo un po’ scema a rispecchiarmici tanto, in quei problemi da primo mondo, mentre in Afghanistan scoppiava una crisi politica e umanitaria senza precedenti. Proprio in quelle ore Kabul stava cadendo in mano ai Talebani; io scrollavo i social in cerca di notizie con in sottofondo «Whiiiiiite woman / A white woman's Instagraaaam».
Se ne è parlato, per un po’ di giorni, di come la situazione si sarebbe fatta sempre più difficile nel Paese, soprattutto per le donne e in particolar modo per le bambine e per le ragazze; per quelle generazioni che non avevano mai conosciuto un mondo sotto il regime talebano. Tutti (spero!) abbiamo fatto una donazione a Pangea, seguito le iniziative di RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan) o risposto agli appelli del CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane).
Tutti (spero!) abbiamo fatto quello che potevamo fare nel nostro piccolo, tutti ci siamo indignati, tutti ci siamo preoccupati e tutti ci siamo sentiti impotenti.
Oggi sono passati due mesi da quel 15 agosto e le notizie che ci arrivano dall’Afghanistan sono sempre meno. Due mesi dopo, siamo ancora meno consapevoli di cosa sia possibile fare nel concreto per aiutare le donne e la popolazione che è rimasta in Afghanistan. Noi, per cominciare, abbiamo deciso di fare l’unica cosa che cosa che sappiamo fare: continuare a parlarne.
Ecco perché, nella newsletter di oggi, abbiamo chiesto alla giornalista Alessia Arcolaci, che nei giorni immediatamente successivi alla presa di Kabul è stata nel centro di accoglienza allestito dalla Croce Rossa Italiana ad Avezzano, di raccontarci cosa ha visto.
Illustrazione di Milly Miljkovic per Senza rossetto
Non smettiamo di parlarne
di Alessia Arcolaci
Il cellulare segnala l’arrivo di un messaggio. Apro whatsapp e un numero che non ho ancora memorizzato mi invia una faccina triste. Una di quelle con gli occhi gonfi di lacrime. Sto per rispondere quando vedo che dall’altra parte qualcuno sta scrivendo. Mi fermo. «Hi Dear Miss», compare sullo schermo e capisco subito che a scrivermi è Ilham. L’ho incontrata la prima volta, pochi giorni prima, nel campo di accoglienza allestito dalla Croce Rossa Italiana ad Avezzano subito dopo lo scoppio dell’emergenza afghana. Era fine agosto. I primi aerei partivano da Kabul carichi di uomini, donne, bambini, terrorizzati, vestiti solo dei loro sguardi persi nel vuoto. Un capitale umano immenso. «I am so sad, miss my family», continua Ilham mentre io inizio a chiedermi che cosa posso fare per lei, come posso esserle davvero utile.
Ilham ha poco più di 20 anni ed è arrivata qui da sola con suo fratello maggiore, Karim, 29 anni. «I nostri genitori sono anziani e non sono riusciti a partire. I giorni all’aeroporto sono stati infernali, siamo rimasti due notti in piedi, svegli, senza niente da mangiare e tantissima paura». La stessa che Ilham si è tolta di dosso solo quando ha messo i piedi sulla pista di atterraggio di Fiumicino. «Una donna con la maglia della Croce Rossa Italiana mi è venuta incontro e mi ha detto che potevo stare tranquilla, che ero al sicuro. Finalmente». Da quel messaggio sono trascorsi quasi due mesi, io e Ilham abbiamo continuato a scriverci di giorno in giorno. Spesso solo per un saluto, lei mi manda un cuore o un tulipano e io le chiedo come sta. In questo tempo di vita sospesa Ilham e suo fratello sono stati ricollocati in un piccolo paesino del Nord Italia. Quando le chiedo come si chiami non riesce a scriverlo allora mi manda la posizione e mi chiede se andrò a trovarla. «Certo Ilham», le rispondo mentre attendo una risposta dalle istituzione affinché sia possibile aiutare davvero Ilham a riunire la sua famiglia. «Mi mancano», ripete Ilham. «Sono in pena per loro, quando li rivedrò? Potremo rivederci? Adesso vivono lontani da Kabul e anche sentirli al telefono sta diventando difficile». Prima dell’arrivo dei talebani, Ilham studiava matematica e voleva diventare professoressa. Suo padre lavorava al mercato insieme a Karim. «Non avevo mai visto un talebano davanti a me fino al giorno in cui sono arrivati a bussare a casa nostra. Hanno detto che sarei dovuta andare con loro, che sarebbero tornati a prendermi». Un’ora dopo Ilham e suo fratello erano in strada diretti all’aeroporto di Kabul.
In Italia le persone afghane arrivate da fine agosto sono state quasi cinquemila. Moltissime famiglie, poche persone sole. Ilham ha portato con lei i suoi documenti scolastici, il diploma, gli attestati di inglese. «So che qui forse non avranno valore ma per me sono importanti. Sono il mio punto di partenza. Non voglio dimenticare il mio sogno di insegnare e qui forse avrò anche una possibilità in più per riuscire a realizzarlo», racconta Ilham e quando parla del suo futuro seduta davanti alla tenda che la ospita temporaneamente ad Avezzano sembra illuminarsi. Anche se l’istante subito successivo è cupo, è quello che le ricorda che i suoi genitori sono lontani. Karim invece parla poco, sia perché non ha studiato l’inglese sia perché è arrabbiato. L’unica cosa che mi dice è che lui non sarebbe mai voluto partire, che il suo Paese gli piaceva ma l’esistenza con i talebani non è vita.
«Oggi abbiamo il colloquio qui in hotel», mi scrive Ilham di mattina presto. Sono le otto e mentre preparo mio figlio per andare a scuola Ilham mi manda un messaggio vocale. «Sono contenta, potremo parlare dei nostri genitori e forse potremo fare qualcosa per aiutarli. Forse ci trasferiamo a Roma perché alcuni miei cugini sono lì», poi una fila di cuori rossi e un sole che splende. Mio figlio Leon, 5 anni, sente la voce di Ilham dal telefono e mi chiede chi sia. Vorrei mostrargli una foto ma mi rendo conto che non ne ho una scattata insieme a lei e sul profilo whatsapp non c’è niente. Guardo la cronologia delle immagini che ho sul telefono e quando arrivo alla giornata trascorsa ad Avezzano non trovo Ilham. Ho solo uno scatto dove lei e suo fratello sono di schiena, accanto alla porta della mensa. Quel giorno abbiamo parlato poco perché lei aveva un colloquio con la psicologa nel pomeriggio ed era nervosa. «Mi tremano sempre le mani quando inizio a raccontare», mi aveva detto quasi chiedendomi cosa potesse fare per evitarlo. Io le avevo fatto una carezza sulla spalla, con la mano un po’ incerta, in questo tempo di pandemia che sembra volerci togliere ogni gesto che sa di empatia. Di vicinanza. «Si chiama Ilham, la conoscerai presto, è molto coraggiosa», rispondo a Leon sapendo di non aver scelto la risposta migliore ma quella che mi è concessa mentre saliamo in bici e corriamo verso scuola.
Ilham come la maggior parte delle persone arrivate in Italia a fine agosto ha richiesto la protezione internazionale. Nell’attesa che la burocrazia faccia il suo corso, ha iniziato a studiare l’italiano grazie alle volontarie che incontra ogni giorno e che assistono lei e Karim nelle esigenze quotidiane. «Vorrei che i miei genitori potessero gioire insieme a me e Karim dei traguardi che raggiungeremo. La laurea, il primo lavoro. Se qualcuno mi avesse detto che oggi sarei stata qui a parlare con te avrei detto che era matto. Invece, è successo davvero. E io adesso vorrei solo svegliarmi e scoprire che non è così». È la stessa frase che ha gridato Nadia in piazza del Popolo a Roma. Sulla mano destra aveva scritto con un pennarello nero la P di Pangea. La stessa che le ha permesso di salire sull’aereo che l’ha portata via da Kabul, dove lavorava all’interno di uno dei programmi di empowerment femminile attivati dall’organizzazione no profit italiana. Anche lei è sola. «Mi mancano tutti: la mia famiglia, gli amici, l’Afghanistan», mi ha raccontato durante la manifestazione a sostegno delle donne afghane che si è svolta in tante piazze italiane il 25 settembre scorso. «In tanti mi chiedono cosa possono fare per aiutarci, io rispondo sempre: “Non smettete di parlare di noi, non dimenticate l’Afghanistan, il suo popolo, il suo futuro”». In Afghanistan oggi ci sono almeno 600mila sfollati interni, milioni di migranti di cui si sono perse le tracce. 39 milioni di persone rimaste nel Paese e che hanno bisogno di assistenza umanitaria. Non smettiamo di parlarne.
Alessia Arcolaci è giornalista, autrice, podcaster. Scrive, tra gli altri, per Vanity Fair, Rolling Stone, Elle, F e Slow-News. È autrice della serie Ossi di Seppia. Il rumore della memoria, realizzata in esclusiva per Raiplay.
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