Settembre 2020, in una scuola della città di Dax, nel sud-ovest della Francia, appare un cartello che invita le ragazze a presentarsi a lezione con un “abbigliamento appropriato”. Le studentesse protestano inondando i social di foto in crop top e gonna corta. Negli stessi giorni in Italia, al liceo Socrate di Roma per la precisione, la vicepreside riprende una ragazza per il suo abbigliamento giudicato poco consono e provocante, dicendo che ai professori “potrebbe cadere l’occhio”. Anche qui si scatena una protesta.
Dopo mesi e mesi la scuola è finalmente ricominciata e quello di cui ci dobbiamo preoccupare sono le minigonne. È giusto che la scuola pubblica imponga un dress code? Se sì, chi e in base a quale criteri stabilisce quale sia l’abbigliamento consono per andare a lezione? Imporre un modo di vestire è una limitazione alla libertà di espressione degli adolescenti? E soprattutto: il decoro che ci aspettiamo da ragazze e ragazzi è davvero lo stesso?
Il dibattito è sempre lo stesso, torna e ritorna a cicliche ondate e sembriamo non trovare mai una risposta. Oggi sono Marta Pastorino e Angelita Peyretti a provare a darsi una risposta, dopo che anche nella scuola media dei loro figli con la riapertura si è tornati a parlare di abbigliamento, decoro e centimetri di stoffa e di pelle.
Nel mio piccolo (qui Giulia C.) posso dire che ho frequentato un liceo in cui ostentare originalità e anticonformismo era la regola (una regola stupida, a ripensarci oggi, come buona parte delle cose dell’adolescenza) e ho fatto ben di peggio che andare a scuola con le gambe scoperte. Tipo indossare la gonna sopra i pantaloni, cosa che ai tempi mi sembrava molto cool. Eppure nessuno mi ha chiesto di avere un po’ di decoro e piantarla di vestirmi da cretina. L’ho capito da sola, per fortuna.
Illustrazione di Federica Carioli per Senza rossetto
Ma come mi vesto?
di Marta Pastorino e Angelita Peyretti
Non ricordo il primo momento in cui mi sono sentita bella, ma è successo molto tardi. Di certo ho il ricordo di essermi sentita brutta, per moltissimo tempo. Di aver cercato di indossare abiti sempre più ampi, felpe abbondanti e pantaloni della tuta. Mettevo i maglioni di mio nonno. Sono felice di non avere con me molte fotografie di quel periodo.
Ho ben chiari invece alcuni momenti negli ultimi anni, parlo degli anni tra i trenta e quaranta, in cui mi sono sentita desiderata, o attraente, e ho chiaro che sono arrivata a lasciarmi guardare e apprezzare solo con il tempo proprio perché mi è mancato un pezzo: non ho memoria del primo sguardo maschile su di me. Non ricordo come mi guardava mio padre mentre mi trasformavo in una donna. So come mi abbracciava quando ero una bambina, poi ho un blackout improvviso su cos’è successo in quel periodo esatto in cui mi trasformavo, solo nebbia, e ancora adesso mi chiedo quanto sia difficile adattare il proprio abbraccio mentre tra le mani la tua bimba sta diventando una donna.
Questa profonda trasformazione accade nel periodo delle scuole medie. Metti piede in prima che sei una bambina o un bambino, ed esci in terza che sei una ragazza o un ragazzo. Quello che avviene fisicamente in tre anni è paragonabile a ciò che succede al neonato, il corpo esplode, all’improvviso mangi il doppio, ti alzi di dieci centimetri, la tua pelle cambia grana, arriva il ciclo e cambia il tuo odore, devi farti la doccia ogni giorno, quando fino a pochi mesi prima era tanto se la facevi una volta a settimana, i capelli infoltiscono, la voce si abbassa, il corpo acquisisce nuove capacità e competenze... Ma se del corpo del neonato i genitori sono i custodi e protettori, chi lo è dell’adolescente?
Nella scuola media dove va mio figlio vige un codice d’abbigliamento non scritto, e quindi non condiviso con i genitori, ma che i ragazzi devono rispettare: se in un giorno molto caldo ad esempio un’allieva indossasse la canotta, l’insegnante potrebbe dirle di coprirsi e mettere la felpa. Mentre il corpo sta cambiando, fa l’ingresso, per la prima volta nella vita, un nuovo tipo di sguardo, che può proteggerti e sostenerti, oppure essere giudicante. Gli insegnanti, osservando come sei vestita, possono diventare arbitri dell’opportunità del tuo abbigliamento, sovrapponendosi al delicato rapporto tra sviluppo fisico e personalità.
Vorrei cercare di capire ciò che comporta definire cos’è giusto e cos’è sbagliato nell’abbigliamento di un adolescente che frequenta la scuola pubblica, e come lo sguardo degli insegnanti possa incidere su tale sviluppo.
Ma qual è questo codice di abbigliamento, dunque? No canotte, no top, no minigonne?La domanda è lecita, perché di solito la questione riguarda qualche centimetro di stoffa in meno sulla pelle… Eppure immancabilmente salta fuori l’ambigua parola “decoro”. Ecco, non vorrei trovarmi nei panni di colui a cui un giorno verrà chiesto di definire questo concetto. Bisognerebbe capire se decoro sia un valore universalmente condiviso, come si vorrebbe quando viene chiamato in causa. Ci si può affidare a un concetto così aleatorio per decidere che cosa è adatto indossare nelle varie circostanze? È molto difficile che esista un accordo universale in merito. Quindi chi stabilisce che cos’è decoroso?
A me non è stata fornita una mappa al riguardo e probabilmente non c’è un decalogo degli abiti adatti a scuola e nelle circostanze in cui il decoro è richiesto. Trattandosi di scuola pubblica, poi, non so quanto possa essere lecito dal punto di vista costituzionale un tale regolamento. Eppure, proprio perché si tratta di scuola pubblica, sarebbe necessario avere sul decoro dei riferimenti oggettivi, e non interpretabili di volta in volta da diverse sensibilità. Perciò: il decoro ha a che fare con i colori? Quali forme, quali consistenze, quali abbinamenti non rientrano nell’abbigliamento decoroso? La maglietta dei CCCP è politica? E perché la tuta da ginnastica sì e la canotta no? Non sono entrambi abiti sportivi?
Allora mi sorge un dubbio, non è che per caso la questione sta tutta nel rapporto tra centimetri di stoffa e centimetri di pelle? E allora almeno un po’ di chiarezza: quanti centimetri sopra il ginocchio la gonna è mini? Ginocchio compreso o escluso? Quanti centimetri perché la manica di una maglia diventi canotta? Quando i pantaloni corti sono shorts? Il reggiseno è obbligatorio? E da quale taglia di seno in su? E in caso di maschio con le tette?
Mi è parso di notare che ogni volta che si parla di abbigliamento a scuola, si pensi soprattutto a come si vestono le ragazze, per poi aggiungere una parola sul fatto che la regola vale anche per i maschi. È possibile che l’argomento decoro copra e insieme riveli il vero protagonista di questo tema: il corpo.
Come dicevo all’inizio, credo di aver impiegato troppi anni a conquistare dimestichezza e padronanza del mio corpo, della sua bellezza, del suo potere, della sua vitalità, con il contestuale riconoscimento della sua brutalità e fragilità, per accettare di viverlo con disinvoltura, per abitarlo con la piena consapevolezza degli istinti che contiene, per offrirlo allo sguardo di chi di fronte a me ha condiviso di volta in volta libertà e responsabilità di questo scambio.
In nessun caso, questa conquista è stata agevolata dalla negazione o dalla repressione di alcuni centimetri di pelle in nome di un abbigliamento consono. Più la gestione delle pulsioni si regge su negazione e repressione, più queste pulsioni diventano scomposte, perché sconosciute, non integrate, e quindi più velocemente riconducono agli istinti predatori da cui si cercava di allontanarsi. È questo che succede quando ci si rifiuta di parlare con le ombre: gonfiano e opprimono, finendo col tenerci al buio. Se continua a perpetuarsi un vissuto del corpo come frutto proibito, a partire dalla scuola media, ecco che questo rischia di diventare il maggiore stimolo alla cultura dello stupro.
Allo stesso tempo, così come reprimere e coprire non mi sembra la soluzione, mi pare che nemmeno sia una vittoria l’imperativo di esibirsi nel caso in cui questa esibizione nasconda un bisogno non ascoltato di ricevere attenzione, cosa che può accadere proprio quando non c’è quello sguardo protettivo in famiglia, o tra i pari o tra gli adulti di riferimento, anche gli insegnanti.
Lo sguardo sul corpo di una ragazza o un ragazzo mentre mutano la loro forma non può che essere amorevole e incentivante insieme, come a dire: vai, cresci, prendi spazio, che il tuo vestire ti faccia sentire bene, con protezione e disinvoltura in eguale misura.
Ma come ci si può vestire dunque? Come si vuole? Non lo so, ma dubito che la scuola pubblica possa curarsene mediante regolamenti, e quindi faccia un’attenta riflessione sulle implicazioni che si possono determinare nel proibire una canotta, nel vietare la gonna sopra il ginocchio. Che la scuola pubblica, per favore, condivida ed espliciti le opportunità sull’abbigliamento, se ne ha facoltà, oppure stimoli un pensiero sullo sviluppo psicofisico degli studenti in causa, che proponga percorsi di approfondimento e di accompagnamento, di educazione sessuale, e di studio franco dei simboli legati all’abbigliamento.
Proprio ora, in un momento in cui la scuola stessa appare nuda, spogliata delle aule, senza i banchi, senza le palestre, spogliata della sua capacità aggregativa, spogliata forse persino di un pensiero pedagogico in favore della sicurezza, nuda sotto tutti i riflettori, mi sembra che sia proprio ora l’occasione per parlare di questo. Ora che la scuola vive la sua massima fragilità nella sua estrema marginalità economica, -la scuola non fa profitto-, ora possono forse spuntare i germogli di nuovi pensieri, o di pensieri trascurati o in apparenza trascurabili, perché è in quello spazio e in quel tempo che migliaia di ragazzi incontrano se stessi e gli altri.
Marta Pastorino è scrittrice, docente, lettrice. Dal 2013 insegna alla Scuola Holden di Torino, ha pubblicato il romanzo Il primo gesto, Mondadori 2013, e vari racconti e articoli in antologie, riviste letterarie e quotidiani nazionali tra cui La Stampa e Il Secolo XIX. Collabora con Feltrinelli come lettrice. Vive con quattro figli/e (suoi e del suo compagno) che frequentano classi dall’asilo nido alla scuola media. @ayrissmarta è il suo account Instagram, inaugurato nei giorni della quarantena per condividere esperienze e riflessioni con i suoi allievi.
Angelita Peyretti ha 45 anni, è nata e vive a Torino con sua figlia. Scrive per passione e per lavoro fa l’editor e l’autrice di libri scolastici. Ha scritto e autoprodotto un libro di narrativa dal titolo La terra sarà piatta con la piattaforma di selfpublishing Il mio libro; è autrice del blog L’ultima cartuccia.
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