Ho scoperto (qui Giulia C.) la scrittura di Olivia Laing durante la pandemia da Covid-19, nei mesi del primo lockdown. Ricordo di aver approcciato il suo Città sola quasi per caso, scegliendo pigramente da una lunga lista di e-book arretrati presenti sul mio e-reader. Ne sono rimasta rapita.
Laing è un’autrice e giornalista britannica, ha 46 anni e vive nell’est dell’Inghilterra. Si definisce una persona non-binaria, ma accetta che si parli di lei con qualsiasi pronome; noi ne parleremo al femminile. Soprattutto con il suo terzo libro, il già citato Città sola (arrivato in Italia nel 2016 per Il Saggiatore), Laing è diventata nel giro di pochi anni una scrittrice di culto per una nicchia di lettori: molti, come me, la incontrano per caso e se ne innamorano, perché i suoi libri spalancano mondi.
Parlare dei suoi testi è molto difficile: in parte potremmo definirli memoir, perché a eccezione di Crudo (la sua unica opera di fiction), partono quasi sempre da sue esperienze personali; in parte potremmo descriverli come saggi, anche se è difficile dire su cosa, dato che quasi sempre spaziano dalla letteratura all’arte, dalla storia alla musica, dalla sociologia alla botanica. Ma potrebbero rientrare anche nella categoria delle biografie, visto che spesso usano le vite di artisti e pensatori del passato come filo conduttore.
Proprio per questa natura ibrida, abbiamo scelto un libro di Olivia Laing per un progetto speciale che realizzeremo questa primavera in collaborazione con il Circolo dei Lettori di Torino. Si tratta di un book-lab: un misto tra un gruppo di lettura e un laboratorio collettivo in cui, a partire dalla lettura di Everybody (Il Saggiatore, 2022), parleremo di corpi come motori di liberazione. In tre incontri a cadenza mensile (il primo è giovedì 15 febbraio, sul sito del Circolo dei Lettori sono specificate tutte le modalità di partecipazione) parleremo del libro di Laing, con deviazioni e divagazioni verso altre letture, serie tv, film e molto altro.
Come dicevamo fin qui, Everybody è tante cose insieme: il maggiore filo conduttore è il racconto della vita di Wilhelm Reich (1897-1957), psicoanalista austriaco di origine ebraica i cui studi sul corpo influenzarono il pensiero novecentesco in vari ambiti. Nel corso del tempo, Reich sviluppò idee controverse e anche antiscientifiche, ebbe una vita rocambolesca e finì col morire in carcere negli Stati Uniti. Laing scandisce la sua storia in quattro fasi, che sono in qualche modo emblematiche delle aree di ricerca su cui l’autrice concentra la riflessione sul corpo: gli studi sulla malattia, quelli sulla sessualità, l’attivismo politico e la protesta, l’esperienza della reclusione.
La biografia di Reich è però un pretesto: seguire la sua storia significa soprattutto seguire le peregrinazioni filosofiche di Laing, le sue ossessioni e i suoi disparati interessi di ricerca. Nel farlo incontriamo moltissimi personaggi del passato, anche illustri ma spesso raccontati da angolazioni molto poco note: da Susan Sontag a Christopher Isherwood, da William Burroughs a Kate Bush, da Ana Mendieta a Malcolm X passando per Nina Simone e Andrea Dworkin per citarne alcuni.
Nella newsletter di oggi pubblichiamo un breve estratto del libro, per gentile concessione dell’editore.
Buona lettura!
Olivia Laing fotografata da Sophie Davidson
La lingua parlata dal corpo
Un estratto da Everybody di Olivia Laing
Dopo un breve flirt con una laurea in letteratura inglese e un anno passato a protestare sul campo, decisi di iscrivermi alla laurea in scienze erboristiche. Ero esausta ed esaurita dalle manifestazioni e volevo disperatamente fare qualcosa di buono della mia vita, contribuire a un futuro dove l’ambiente non fosse depredato. Volevo formalizzare la mia conoscenza del corpo umano e mi affascinava l’idea che avesse un linguaggio tutto suo, distante dal parlato ma altrettanto eloquente e significativo, composto da sintomi e sensazioni anziché parole. Una laurea da Topolino, amava dire mio padre, ma erano quattro anni intensi di topolinate, più un anno propedeutico per colmare le mie lacune scientifiche. La maggior parte dei corsi era in comune con la laurea in medicina classica, ma c’erano anche moduli più stregoneschi di materia medica e botanica.
Nei due anni successivi disegnai ogni singolo osso, muscolo e organo del corpo, memorizzando nomi e funzioni fin dei più piccoli ossicini della mano: il lunato e il pisiforme, così chiamati per la rispettiva somiglianza alla luna e ai piselli. Su fogli di carta da macellaio tracciai le trasformazioni metaboliche che avvengono dentro la fabbrica in miniatura che è la cellula. All’inizio avevo solo una vaga idea del funzionamento del corpo, ma andai avanti coraggiosamente, affascinata e un po’ intimorita da quanta vita avvenisse sotto la linea di galleggiamento della coscienza. A poco a poco tutto si mise a fuoco. Il corpo era uno strumento per processare il mondo esterno; una macchina convertitrice che accumulava, trasformava, scartava e rimuoveva pezzi.
Studiammo il corpo ideale, la sua versione teorica, e poi cosa poteva andare storto, districandosi tra migliaia di disturbi, ciascuno con la propria idiosincratica patologia. Distinguere un sintomo dall’altro era un processo definito diagnosi differenziale. Imparammo a riconoscere le dita ippocratiche che predicono uno scompenso cardiaco, a distinguere l’eruzione cutanea dell’eczema da quella della psoriasi, a individuare gli occhi sporgenti e il battito accelerato di chi soffre di ipertiroidismo oppure la classica faccia lunare della sindrome di Cushing.
Ci introdussero all’arte dell’esame obiettivo in una clinica di Bermondsey pregentrificazione, dove passammo pomeriggi imbarazzati e ridanciani a misurarci la pressione e a palpare reni e fegati, che bisognava afferrare tra le mani come una saponetta. Tutto aveva un significato. Un sussulto mentre premevi alla base di una costola poteva indicare un problema alla cistifellea nel paziente. Unghie avvallate come un cucchiaio potevano indicare un’anemia da carenza di ferro o una emocromatosi. La quantità di informazioni era soverchiante ma anche meravigliosamente ordinata, almeno su carta.
Cominciai a visitare i pazienti durante il secondo anno. Poiché la clinica si trovava in centro a Londra e offriva appuntamenti sovvenzionati, c’era una varietà di pazienti maggiore rispetto alle solite cliniche private. Ben presto mi accorsi che la diagnosi era molto più disorientante e contorta rispetto a quanto mi aveva lasciato intendere Principles and Practices of Medicine di Davidson. Tanto per cominciare, le persone di solito non avevano una sola malattia ma arrivavano con una concatenazione di disturbi. Un anziano poteva avere diabete e problemi di cuore e caviglie gonfie; un’adolescente poteva avere sindrome di Raynaud e mestruazioni dolorose e depressione. Bisognava valutare accuratamente ogni sintomo e ricondurlo alla sua origine, prima di delineare una terapia.
L’erboristeria è una medicina narrativa, disse una volta un mio insegnante, e la frase mi rimase impressa. Siccome la prescrizione è fornita soltanto alla fine della seduta, il grosso dell’ora è dedicato all’ascolto del paziente, a ricostruire la storia della sua vita attraverso il suo corpo. Fin dall’inizio mi ha affascinato il modo in cui i pazienti interpretavano il proprio corpo, il modo in cui intrecciavano vita emotiva e fisica. Nei loro racconti un divorzio provocava una cistite, i tumori erano legati a vecchi dispiaceri, il lutto provocava ulcere o toglieva la voce come nel caso di Dora, la famosa paziente di Freud.
Dopo la laurea aprii uno studio in un’ampia stanza bianca nel quartiere di Hove, affacciato su un lungo giardino dove non mi era permesso entrare. All’ingresso c’era un minuscolo dispensario dove pesavo le tisane di olmaria e lavanda su una vecchia bilancia d’ottone, estraendo i contrappesi da cinque e dieci grammi e starnutendo per la nuvola di polvere aromatica, un’attività che a volte mi ritrovo a svolgere ancora in sogno. Avevo pazienti di tutte le età, dai neonati agli anzianissimi. Ho visto ragazze anoressiche e intere famiglie in preda all'angoscia. Ho visto persone che volevano concepire disperatamente, donne così sole da farne una malattia e uomini a cui restavano poche settimane di vita. Ascoltavo le loro storie e benché sapessi il motivo per cui il bucco e l’equiseto avrebbero aiutato un paziente, mentre la viola mammola e l’achillea millefoglie avrebbero aiutato un altro, mi sembrava tuttavia di offrire il mio sostegno più profondo facilitando la narrazione, quasi fossi una testimone davanti a cui sbrogliare e analizzare la matassa intricata dei problemi fisici. Questo processo mi sembrava di per sé curativo e accresceva il mio fascino per la natura misteriosa della malattia, che si manifesta e scompare seguendo binari non sempre visibili.
All’epoca circolava un pensiero nocivo, in voga nei circoli New Age e alternativi, secondo cui tutte le malattie fisiche sono provocate da condizioni psicologiche negative: il corpo un’arena dove le emozioni represse o ignorate seminano distruzione. Una delle principali sostenitrici di questa teoria era un’anziana signora americana di nome Louise Hay, ex modella dai capelli biondo-bianchi e il volto tirato, rifatto, diventata milionaria grazie a Puoi guarire la tua vita, il suo manuale di automiglioramento pubblicato nel 1984 che ha venduto cinquanta milioni di copie, diventando così uno dei saggi più letti di sempre. Quando il suo matrimonio naufragò alla fine degli anni sessanta, Hay cominciò a frequentare una chiesa spiritualista che la introdusse al concetto di pensiero positivo. Dichiarò di averlo usato per sconfiggere il cancro all’utero (quando nel 2008 in un’intervista del New York Times le chiesero di dimostrarlo, disse che era sopravvissuta a qualunque dottore potesse confermare la diagnosi).
Nel suo universo la mente aveva molto più potere del corpo. Hay sosteneva che si potesse guarire spontaneamente da malattie gravi come il cancro affrontando il dolore psicologico sotteso, ricorrendo non alle medicine o alla terapia, bensì ad affermazioni positive, la pratica di ripetere slogan come «sono una magnifica persona» oppure «splendo di salute». Era facile come l’abc e in effetti nel 2004 pubblicò un dizionario delle malattie fisiche e delle relative cause mentali: l’acne era provocata dal disgusto di sé, l’artrite alle mani dal desiderio di punire, l’asma dal pianto trattenuto. Il cancro era odio e risentimento, mentre la poliomielite era gelosia paralizzante (una malattia che guardacaso in Inghilterra diventò rara ed evanescente dopo gli anni cinquanta, quando fu introdotto il vaccino antipolio).
Non mi stupiva che fosse diventata una delle scrittrici più vendute di sempre, appena un gradino sotto giganti come Danielle Steel e Agatha Christie. Per qualche motivo il pensiero che la malattia sia conseguenza, reazione, di emozioni represse o di traumi irrisolti, è più rassicurante che confrontarsi con l’orrore esistenziale della casualità, la consapevolezza che chiunque, a prescindere da quanto sia buono e puro ed emotivamente in salute, possa soffrirne in qualunque momento. Credere che la mente sia causa della malattia dà al paziente un certo potere, ma pure una colpa terribile. L’aspetto più odioso della teoria di Hay era che addossava la colpa della malattia alla persona che la stava vivendo. Era antiscientifico e nascondeva un’idea ancora più subdola: che esistesse una giusta modalità di corpo, che la malattia e la disabilità scaturissero dal fallimento, mentre un buon equilibrio psicologico era ricompensato dalla salute fisica.
La mia esperienza personale con i pazienti mi insegnava che il rapporto tra soma e psiche era molto più complesso di quanto ammettessero il modello di Hay e la medicina tradizionale. A volte era evidente che i sintomi fisici fossero dettati da una sofferenza emotiva (per esempio, ci sono prove che i traumi passati abbiano un’influenza notevole sul funzionamento del sistema immunitario, come sostiene lo psichiatra Bessel van der Kolk nell’affascinante Il corpo accusa il colpo). Ma la relazione non era sempre così semplice o unidirezionale. I pazienti erano malati, ma al tempo stesso la malattia diventava terreno di riflessione per altri aspetti della loro vita. La malattia era un modo per riconoscere o esprimere dolori altrimenti inammissibili, i tormenti del corpo fornivano un linguaggio per comunicare altro.
Proprio alla fine dei cinque romanzi della saga di Patrick Melrose, Edward St Aubyn descrive questo fenomeno con parole precise e folgoranti:
Il suo corpo era un cimitero di emozioni sepolte; i suoi sintomi si radunavano attorno al medesimo terrore fondamentale […] Il frequente e impellente stimolo a urinare, gli spasmi al colon, i dolori al fondoschiena, gli sbalzi della pressione sanguigna, che da normale poteva diventare pericolosamente alta in pochi secondi, per lo scricchiolio di una tavola del parquet o per il pensiero di un pensiero, e l’insonnia imperiosa che dominava su ogni altro fattore: tutto suggeriva uno stato d’ansia abbastanza radicato da bloccare i suoi istinti e assumere il controllo sugli automatismi del suo corpo. I comportamenti potevano essere modificati, gli atteggiamenti cambiare, le mentalità trasformarsi, ma era difficile poter dialogare con le tendenze innate dell'infanzia. Come poteva un bambino esprimersi prima ancora di avere un’identità da esprimere, o le parole per esprimere ciò che ancora non possedeva? L’unico linguaggio disponibile era quello inarticolato delle ferite e delle malattie.
Era questo linguaggio inarticolato che desideravo comprendere, la lingua testarda ed elusiva parlata dal corpo.
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Continua anche il nostro bookclub alla libreria Verso di Milano. Il libro di cui parleremo nel prossimo incontro è La Storia di Elsa Morante, che uscì nel giugno di 50 anni fa. In questo articolo per Internazionale, Giuseppe Rizzo racconta cosa lo rende un romanzo indimenticabile. Rispetto a quanto comunicato precedentemente, il nostro incontro è stato spostato a giovedì 21 marzo dalle ore 19:00 in libreria o online. Per iscriversi al gruppo di lettura basta acquistare il libro da questo link (o fisicamente da Verso).
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Rapita dalla Laing. Spesso camminando vicino a un fiume ripenso a “Gita al fiume”. Ma tutti i suoi libri rimangono dentro e offrono spunti di riflessione continui. Presa da fervore e dalla stessa passione per il giardinaggio, le ho scritto, e con mio stupore mi ha risposto. Grazie della newsletter! Vi seguo da pochissimo.