In questa newsletter troverete la storia di quattro donne che hanno deciso di cambiar vita. Ovvero, hanno scelto di abbandonare il tanto agognato “posto fisso”. Il miraggio che, fin da bambine, ci hanno abituato a cercare e a tenerci stretto.
Siamo state cresciute con l’idea che il lavoro sarebbe stato centrale nella nostra vita, che avrebbe definito le persone che siamo. Ma, soprattutto dopo la pandemia, queste certezze sono state spesso messe in discussione. E ora molte persone scelgono vie alternative, modalità in cui trovare un diverso equilibrio tra vita privata e carriera (noi, per esempio, già sogniamo la settimana da 4 giorni).
Da una posizione come dipendenti, Valentina, Ilaria, Giulia e Laura, hanno scelto di fare un salto nel vuoto (chi più, chi meno) verso una vita da freelance. Che significa molta più autonomia e indipendenza, ma anche qualche rischio in più. Una rivalutazione del proprio tempo e del proprio valore, che in tanti e tante si sono trovati a fare negli ultimi anni. Le quattro storie che vi raccontiamo oggi sono, ovviamente, una minuscola parte di tutto ciò che accade e, soprattutto, delle motivazioni che portano le persone a scegliere di cambiare il loro percorso lavorativo. Ognuno ha la sua, personale e giusta per sé.
Se volete raccontarci la vostra esperienza, rispondete a questa mail. Saremo felici di leggervi!
Jacinda Ardern rassegna le sue dimissioni da Prima Ministra della Nuova Zelanda
Diventare grandi (dimissionarie)
Intervista a Valentina Aversano, Ilaria Chiavacci, Giulia Lamoratta e Laura Pezzino
«Non me ne vado perché è stato difficile, se fosse così, probabilmente avrei lasciato il lavoro dopo due mesi. Lascio perché un ruolo così privilegiato comporta responsabilità. La responsabilità di sapere quando sei la persona giusta a guidare e anche quando non lo sei. So quanto impegno richiede questo lavoro e so che non ho più abbastanza energie per rendergli giustizia».
Con queste parole a metà del gennaio passato la premier Jacinda Ardner lasciava il suo ruolo di prima ministra della Nuova Zelanda, con nove mesi d’anticipo.
Nessuno se l’aspettava perché Ardner, nonostante stesse perdendo consensi rispetto ai record del suo primo mandato, era ancora una politica molto apprezzata in patria e a livello internazionale. Eppure, per quanto spiazzante, la sua decisione e soprattutto il discorso pubblico con cui l’ha motivata è suonato molto familiare a tante persone della nostra generazione e ha suscitato una grande empatia.
Negli ultimi anni, e in particolare in seguito alla pandemia da Covid-19, nelle società occidentali si è iniziato a parlare di “grandi dimissioni”, un fenomeno che negli Stati Uniti ha portato circa 24 milioni di persone a lasciare il proprio lavoro nei primi nove mesi del 2021.
«La pandemia ha portato al culmine il mio malessere, perché ha spogliato il lavoro di tutto il contorno umano che trovavo comunque piacevole, dalla chiacchiera dal vivo con le colleghe alla vita in casa editrice — ci ha raccontato Valentina Aversano, un tempo responsabile della comunicazione web di una casa editrice indipendente. — Il carico mentale, poi, con il Covid è aumentato ancora di più, perché all’improvviso i social erano diventati l’unico luogo in cui poter dialogare, incontrarsi e quindi anche promuovere libri, autrici e autori».
Se proviamo a inquadrare come il fenomeno si stia manifestando nel nostro Paese, anche qui i numeri ci vengono in aiuto, numeri peraltro in crescita: se nei primi tre trimestri del 2021 le dimissioni registrate (quindi il numero di contratti di lavoro cessati) erano stati 1,3 milioni, nello stesso periodo del 2022 erano già 1,6 milioni.
«Lasciare l'azienda per la quale lavoravo da molti anni (quasi 15) è stata una decisione lunga e sofferta. Non solo mi aveva dato il mio primo lavoro fisso, ma mi aveva permesso di fare esperienze straordinarie (visitare un pueblo sperduto in Argentina, intervistare Tim Burton a Londra, vedere le balene in Quebec, condividere la scrivania con gli Elio e le Storie Tese). Ancora più difficile è stato decidere di non lavorare più con colleghe e colleghi che, negli anni, erano diventati amiche e amici. Però, da qualche anno ormai soffrivo periodicamente di quelle che un tempo venivano chiamate "febbri da crescita", un prurito, una voglia di uscire da lì e camminare da sola. Lasciare, per me, ha significato crescere, diventare veramente adulta, nonostante anagraficamente lo fossi già da parecchio tempo» ci ha raccontato Laura Pezzino, a lungo book editor di Vanity Fair, oggi giornalista culturale freelance e curatrice di Book Pride, fiera dell’editoria indipendente.
Vista la portata del fenomeno delle dimissioni, i sociologi iniziano a interrogarsi sulle cause di questa tendenza che, almeno nel nostro Paese, sembra riguardare quasi indistintamente uomini e donne. Se in alcune società, come per esempio quella statunitense, il fenomeno ha già assunto un carattere collettivo e politico, «teso a rinegoziare il confine tra ciò che è lecito e ciò che non è più accettabile» (come ha detto la studiosa Francesca Coin in un articolo per Valigia Blu), in Italia sembra avere ancora una dimensione più personale di ricerca di un equilibrio tra vita lavorativa e vita privata.
Ma anche da noi non mancano le testimonianze di dimissioni che hanno anche una sfumatura di rivendicazione sociale. Tra le storie che abbiamo raccolto c’è per esempio anche quella di Giulia Lamoratta, ex dipendente dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani con vari incarichi nell’ambito della comunicazione e della progettazione culturale. Oggi Giulia lavora come funzionaria in un’agenzia del Ministero dell'Agricoltura che si occupa di scrivere report e note alla Commissione Europea sull'operato dell'Italia come Stato Membro.
«L'idea di cambiare lavoro non aveva nulla a che fare con il lavoro in sé. Ero discretamente soddisfatta delle cose che facevo e l'ambiente lavorativo era accogliente. Purtroppo hanno inciso molti altri fattori: una dirigenza incapace di "dirigere" e una scarsa capacità di gestione delle risorse umane, con una direzione del personale inesistente che anzi, se possibile, remava contro i dipendenti — ci ha detto — . Per fare un esempio concreto: ho perso mia mamma la scorsa estate e alla mia richiesta di un solo mese di aspettativa non retribuita, per organizzarmi e riprendermi, mi è stato detto un secco no».
D’altronde, siamo l’unico paese in Europa in cui negli ultimi vent’anni gli stipendi sono diminuiti invece di aumentare, con uno dei tassi di soddisfazione dei lavoratori più bassi al mondo. E, anche se forse in Italia non siamo ancora arrivati al punto di lasciare il lavoro per ribellarci contro le crescenti difficoltà a pagare l’affitto, permettersi cure mediche o (figuriamoci) comprare una casa, sicuramente desideriamo quantomeno riappropriarci del nostro tempo.
«Il mio rapporto con il tempo libero è cambiato direi in meglio — dice Ilaria Chiavacci, anche lei giornalista freelance dopo molti anni trascorsi nella redazione di una rivista —, anche se lavorando da autonoma ci sono momenti in cui è ancora più difficile prendersi, o imporsi, degli stop. Quello che però sicuramente è diverso è la sensazione: il tempo speso a lavorare per te stessa ha tutto un altro sapore. Ci ho messo tanto a essere serena nei confronti del tempo che sceglievo di non dedicare al lavoro, in un primo momento era come se mi sentissi in colpa nei confronti di me stessa. Adesso sto imparando a scrollarmi di dosso il mito della produttività a tutti i costi, dico più no e sono più serena nel farlo».
E soprattutto, non è detto che lavorare più ore significhi necessariamente essere più produttivi. È proprio di questi giorni la notizia della diffusione dei risultati del più grande studio condotto finora sulla settimana lavorativa di quattro giorni: pur con tutte le cautele del caso (la ricerca ha infatti coinvolto un gruppo di aziende molto omogeneo per geografia, dimensioni e intenzioni di investire sulla settimana corta a lungo termine), l’indagine condotta su circa 2.900 dipendenti di varie aziende del Regno Unito ha dimostrato che la contrazione dell’orario lavorativo non ha inciso sul fatturato (che in alcuni casi è addirittura aumentato), ma ha drasticamente ridotto lo stress e l’insoddisfazione dei lavoratori.
Lasciare il lavoro dipendente per molti rappresenta un vero e proprio salto nel buio, soprattutto in questo momento storico-economico. E anche per chi, come le nostre interlocutrici, parla da un contesto tutto sommato privilegiato, lo sforzo emotivo e personale può essere molto faticoso. Come ci ha detto Ilaria Chiavacci: « La mia non è una storia di estrema sofferenza ed esasperazione, anzi. Un giorno mi sono resa conto che da dodici anni entravo sempre nello stesso palazzo e facevo sempre le stesse cose; è stato un po’ come realizzare che non sei più innamorata del compagno di una vita».
È sempre più chiaro che dobbiamo ripensare il valore identitario che diamo al lavoro, il suo peso nelle nostre vite e anche il ricatto a cui spesso siamo sottoposti pur di portare uno stipendio a casa. Ognuno ha le proprie priorità e una bilancia diversa su cui pesare il rapporto tra carriera e vita personale: se per Giulia era importante trovare un luogo che la rispettasse in quanto lavoratrice, per Valentina la priorità era trovare una via di fuga dal burnout.
Tutte hanno imparato qualcosa da questa scelta e hanno tanti consigli da dare: dall’imparare ad aspettare all’essere capaci di condividere il proprio malessere, dal credere in se stessi a cose più pratiche come essere in grado di gestire la propria contabilità. Laura, per esempio, riassumerebbe così le cose che ha appreso: «Fattura il prima possibile. Non temere il giudizio della tua commercialista. Il lavoro arriva, anche se a volte sembra il contrario. Il lavoro arriva tutto insieme (poi). Approfitta del mattino presto. La luce più bella è quella delle cinque del pomeriggio. Lavorare con gli altri è bellissimo. Potere scegliere le persone con le quali lavorare lo è anche di più. Ricordati che hai anche un corpo (e usalo)».
Valentina Aversano è un’esperta di comunicazione digitale freelance: sbrina persone, progetti e contenuti. Poi legge e ride con Strategie Prenestine. Il suo sito è signorinalave.com e la trovate su Instagram come @signorinalave.
Ilaria Chiavacci lavora come giornalista dal 2010, prima nelle redazioni di Vanity Fair e GQ e adesso da freelance. Tra le varie realtà con cui collaboro ci sono LifeGate, Linkiesta, GQ e The Pill Outdoor. Dal 2022 produce e conduce un podcast di cui è anche autrice: si chiama I Millennial Stanno Bene e nella seconda puntata ha affrontato proprio il tema delle grandi dimissioni.
Giulia Lamoratta ha 32 anni, è laureata in Filologia classica e ha due master in Comunicazione istituzionale. È una curiosa patologica e ama studiare. Infatti, ha da poco iniziato un secondo corso di laurea in Relazioni internazionali e sta imparando il Cinese. La cosa che più riempie la sua vita sono i viaggi zaino in spalla in giro per il mondo e lo sport.
Laura Pezzino: romagnola, vive a Milano dove fa la giornalista. Appassionata di letteratura e poesia, è stata a lungo book editor di Vanity Fair. Oggi collabora con varie testate, tiene corsi, è curatrice di Book Pride, la fiera milanese dell'editoria indipendente, e autrice di A New York con Patti Smith (Giulio Perrone 2022).
Cose belle che abbiamo letto in giro
Secondo i dati dell’OMS in alcuni paesi è tornato a crescere il tasso di mortalità materna, a causa di complicazioni legate a gravidanza, parto e aborti.
L’8 marzo esce al cinema Women Talking, il film di Sarah Polley, tratto dal libro di Miriam Toews.
Harvey Weinstein è stato condannato a 16 anni di carcere per violenze sessuali. Mentre il musicista R. Kelly ha ricevuto una condanna di vent’anni, per pedopornografia e adescamento di minori.
In attesa della Bologna Children’s Book Fair, in programma dal 6 al 9 marzo, ecco 30 libri per ragazzi e ragazze da leggere quest’anno. E c’è anche l’esordio di un caro amico di questa newsletter.
Prosegue il dibattito sulla scelta della casa editrice inglese Puffin di modificare i libri di Roald Dahl.
La storia delle sei donne che lavorarono su uno dei primi computer.
Cinque giovani della Generazione Zeta sono nei consigli di amministrazione delle prime 152 società italiane della moda italiana. Ma le donne sono solo il 22,6%.
Ci sono ancora alcuni strascichi di Sanremo: il bacio tra Fedez e Rosa Chemical, da un altro punto di vista.
Si parla molto in questi giorni della serie tv su Lidia Poët, disponibile su Netflix, prima avvocata italiana. Qualche tempo fa era uscito un bel libro a riguardo.
A presto,
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