«Per cinque mesi sono andata in giro a chiedere a ragazzi e ragazze di raccontarmi come scrivono e parlano di amore e di sesso», spiega Giulia Muscatelli all’inizio del suo nuovo libro Io di amore non so scrivere, appena uscito per add editore. Un saggio che ci porta direttamente dentro la testa dei più giovani, per capire, appunto, come vivano le loro relazioni nel mondo contemporaneo. Quali dubbi, domande e desideri emergano, se hai tra i 15 e i 20 anni, nell’Italia di oggi.
Le serie tv e i social che impatto hanno nella vita sentimentale degli adolescenti italiani? Che posto hanno la gelosia e la violenza di genere all’interno delle loro storie?
Giulia Muscatelli ha cercato di rispondere a questa e a molte altre domande, andando a parlare direttamente con loro, gli adolescenti, nelle scuole, in associazioni, librerie, biblioteche e fondazioni. Ne emerge un ritratto generazionale fatto di tenerezza e preoccupazione, idee chiare e concetti fumosi, non senza qualche preoccupazione sul valore che venga dato al tema del possesso, spesso considerato erroneamente un’espressione d’amore.
Di seguito trovate l’intervista che abbiamo fatto all’autrice di questo saggio, per capire meglio insieme a lei come ha raccolto le preziosi testimonianze di questi ragazzi e ragazze.
Buona lettura!
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Intervista a Giulia Muscatelli intorno al libro Io di amore non so scrivere
Com’è nata l’idea del libro e come si è sviluppato il progetto? Come hai “selezionato” i ragazzi e le ragazze con cui parlare e, soprattutto, come hai scelto gli argomenti da trattare con loro?
Lo dico nel testo, quindi sarò sincera anche qui: il libro arriva da una richiesta della stessa casa editrice. L’idea della struttura, poi, proviene dal mio rifiuto. Mi spiego meglio: quando mi è stato proposto di scrivere di amore e di adolescenti, la mia prima risposta è stata “io non so nulla di entrambi”. Poi ci ho pensato bene e mi sono detta che quando non conosci qualcosa puoi chiedere, domandare, fare ricerca. E così, per la prima volta in vita mia, mi sono avvicinata a un argomento che prima pensavo non mi interessasse neppure. Credo che questo sguardo, scevro dal mio stesso giudizio su me stessa e su quello che mi circondava, abbia contribuito a togliere la mia voce a favore di quella delle persone che ho incontrato, che era il mio obiettivo. Volevo scrivere un libro per sottrazione – dove venisse meno il pensiero contaminato da chi sono, dalle mie emozioni, da ciò che leggo, guardo ascolto. È chiaro che non ci sono riuscita del tutto, non nella restituzione, ma posso dire di averlo fatto nella fase di ascolto.
Sono partita con una lista di argomenti e da subito ho capito che non ero io a dover decidere cosa raccontare ma che sarebbero stati i ragazzi e le ragazze a definire una sorta di struttura. Alla fine dei vari giri, quando mi sono trovata con un quadernone straripante di più di duecento scritti d’amore e un quaderno degli appunti pieno di pagine, li ho catalogati e ho scoperto che c’erano degli argomenti dominanti, ricorrenti. Quegli argomenti sono diventati i capitoli del libro.
Le persone che hanno partecipato al libro sono state scelte tramite una call aperta fatta da me sui miei canali, dalla casa editrice e da diverse associazioni, musei, scuole che mi hanno aiutato.
Ci racconti più nel dettaglio come si svolgeva un incontro con i ragazzi e le ragazze? Dal libro si percepisce che c’era una parte di discussione libera e poi una parte di scrittura, sempre spontanea e volontaria. Perché hai scelto di far esprimere gli e le adolescenti con questi due linguaggi diversi?
Per quanto riguarda gli adolescenti che ho incontrato di persona nelle classi-nel senso che alcuni si sono espressi tramite un form online anonimo, e ad altri ho letteralmente rubato le confessioni o nascondendomi nei bagni delle varie scuole o chiacchierando semplicemente in altri contesti in cui mi capitava di incontrarli – ho cominciato sempre da una domanda, di solito da uno stereotipo comune. Spesso entravo e, rigorosamente dopo aver chiesto ai professori di lasciare l’aula, dicevo: ma lo sapete che di voi si dice che scopate un casino? E spesso la risposta era: ma magari!
In questo modo, adottando dalle prime espressioni un linguaggio iper-colloquiale e un atteggiamento “libero” ho stabilito le regole del nostro rapporto. Di solito gli incontri duravano dalle due alle tre ore, ma dopo c’era sempre un momento di confronto privato tra me e alcune persone che volevano raccontarmi delle cose per contro loro, senza la presenza dei compagni.
E poi sì, c’era sempre il momento della scrittura, sempre dopo il dialogo però, quando avevano avuto il tempo di riflettere sull’argomento e di capire che di me si potevano fidare. Li ho fatti scrivere perché dalla mia esperienza come docente sapevo che il confronto con la pagina bianca li avrebbe portati a far uscire emozioni inedite anche a loro stessi (e non c’è nulla di più autentico della tua stessa storia che ti sorprende), per le quali forse non avevano le “parole parlate” ma avrebbero avute “quelle scritte”. Certo non mi aspettavo ciò che ne è uscito: una mappa di emozioni travolgenti e una grandissima capacità di descriverle, una lucidità emotiva sorprendente.
Credi che la buona riuscita del progetto dipenda dall’informalità con cui la tua ricerca è stata condotta o pensi che anche figure più “istituzionali” (tipo insegnanti, genitori) se imparassero a mettersi in ascolto potrebbero creare altrettanti spazi di confronto per ragazzi e ragazze?
Penso che la mia “posizione” abbia giovato molto. Io non ero lì per educare, per insegnare, per sgridare, mostrare, ma solo per ascoltare. È chiaro che questo mi ha messo in una condizione di vantaggio rispetto a un insegnante o un genitore che ha un ruolo assai più complicato e definito. Spesso con loro ho utilizzato parole improprie o termini inadeguati con il solo scopo di avvicinarmi e così tirare fuori il più possibile dai racconti: è chiaro che un atteggiamento del genere non può essere assunto da una figura più istituzionale.
Tuttavia, mi sono accorta che le persone più giovani non ricevono l’ascolto del quale avrebbero bisogno. I loro sentimenti, le loro emozioni, vengono spesso rilegate nell’ambito delle “cavolate da adolescenti” sminuite. Se tutti noi adulti, indipendentemente dal nostro ruolo, provassimo a dare valore a ciò che sente una persona al di là dalla sua età, forse saremmo più felice e magari potremmo evitare anche tante forme di violenza.
Nel libro racconti alcuni pregiudizi che avevi e che sono crollati con l’incontro con ragazzi e ragazze, sia in senso positivo che in senso negativo. Se dovessi sceglierne una, qual è la cosa su cui avevi sopravvalutato questa “generazione” e quale quella in cui invece li hai sottovalutati?
Li ho sopravvalutati credendo che fossero molto più inclusivi di come sono. E li ho sottovalutati rispetto al desiderio di un futuro pieno di amore: pensavo non fosse qualcosa di importante per loro, che la vita di coppia non rientrasse negli obiettivi e invece non è assolutamente così.
Ci tengo però a dire che io non ho la pretesa di raccontare o descrivere una generazione, io ho incontrato solo alcuni adolescenti, ovviamente non tutti; per quanto questo numero sia cospicuo e importante ai fini di una ricerca, rifuggo il termine generazione se associato a ciò che ho individuato in questa avventura.
L’anno scorso, proprio a febbraio, Save The Children ha pubblicato i risultati di un’importante ricerca sulla violenza di genere tra gli adolescenti, con dati abbastanza allarmanti su quanto questa sia diffusa anche nelle coppie di giovanissimi. Uno dei dati più interessanti era che, mentre le ragazze contemporanee si stanno sempre più affrancando dagli stereotipi di genere, lo stesso non si può dire per i ragazzi. È qualcosa che registri anche tu nel libro, ci racconti che idea ti sei fatta a riguardo?
Purtroppo è qualcosa che ho constatato anche io, soprattutto riguardo a un malsano rapporto con il sentimento di gelosia. Romanticizzano la gelosia, la vedono come segnale di interesse e gli atteggiamenti tossici, verbalmente violenti, vengono confusi con attaccamento. Si controllano tramite app, tutti, maschi e femmine. Con la differenza che se una ragazza tradisce, lui si incazza al punto che le tira uno schiaffo o le si piazza sotto casa; se un ragazzo tradisce, lei piange con le amiche. Tante di loro vedono nell’uomo violento un atteggiamento insito del maschile, come una caratteristica primordiale. È un dettaglio che mi ha terrorizzato e scoraggiato: so che questa loro visione è una responsabilità anche mia, della mia generazione. Vorrei avere una soluzione ma credo che come sempre sia un fattore culturale, insito nel tessuto, che va scardinato dal principio, intendo proprio dal primo giorno di nascita di un individuo.
Il libro si chiude con una riflessione sull’amore come “per sempre” della formula “e vissero per sempre felici e contenti” che forse non è solo uno standard che fissa l’asticella delle aspettative troppo in alto, ma anche una genuina forma di speranza. Diresti che questi ragazzi e ragazze che hai incontrato hanno speranza nel futuro?
Ne hanno tantissima. E questa cosa mi ha dilaniato, distrutto, emozionato, fatta felice. Non c’è niente che faccia più male e bene allo stesso tempo di un giovane colmo di speranza.
Giulia Muscatelli (Torino, 1989) è un’autrice. Scrive per diverse testate e si occupa di scrittura e progettazione di percorsi finalizzati alla valorizzazione dell’heritage museale ed esperienziale digitale di grandi e piccole aziende. Struttura progetti di comunicazione per privati ed enti culturali, produce webinar per imprese. Collabora come docente con Scuola Holden. Nel 2022 ha pubblicato Balena (nottetempo, tradotto anche in Francia), e nel 2023 il podcast Sotto le unghie (Mondadori Studios).
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