Il 28 maggio ci vediamo a Milano da Verso libri per un nuovo appuntamento del nostro bookclub. Parleremo di Kairos di Jenny Erpenbeck (Sellerio), romanzo vincitore dell’International Booker Prize 2024, che ha fatto molto discutere per la sua capacità di intrecciare in modo originale la storia individuale e quella collettiva.
Ambientato negli ultimi anni della DDR, Kairos racconta la relazione tra una giovane studentessa e uno scrittore molto più grande di lei: un rapporto segnato da potere, dipendenza, desiderio e manipolazione. Intorno a questa vicenda privata si muove un paese in trasformazione, scosso da fratture politiche e morali che fanno eco a quelle intime dei personaggi. La scrittura di Erpenbeck, precisa e implacabile, restituisce con forza il senso del tempo che si spezza, che accelera, che diventa occasione o rovina — proprio come suggerisce il titolo, ripreso dal concetto greco di “tempo opportuno”.
Partendo da questo libro, abbiamo deciso di allargare lo sguardo ad altre scrittrici tedesche attive oggi, accanto a nomi ormai storici come Herta Müller o Christa Wolf.
In questa newsletter abbiamo chiesto a Clara Miranda Scherffig, critica e traduttrice che da molti anni vive a Berlino, di scegliere cinque autrici: quattro già tradotte in italiano e una ancora inedita. Si tratta di voci diverse per generazione, stile e temi, ma accomunate da una certa libertà nello spostarsi tra lingue, identità e tradizioni letterarie: una mappa di percorsi individuali e collettivi, attraversata da biografie migranti, da sguardi che abitano i margini, da un costante dialogo con l'altro da sé.
Jenny Erpenbeck riceve l’International Booker Prize 2024
4 autrici (+1) senza etichetta
di Clara Miranda Scherffig
Nel compilare questa breve e incompleta lista di suggerimenti di lettura, mi sono chiesta se potessi offrire delle generalizzazioni esaustive almeno in termini di temi, tendenze, stili dominanti. In verità mi sembra che l’unico aspetto che rende giustizia alla varietà di voci – di cui una percentuale davvero minima viene pubblicata in traduzione italiana – è la contaminazione tra linguaggi, provenienze e visioni che esulano dai confini nazionali. La grande ispirazione comune delle autrici che seguono (e che però non è affatto una specificità tedesca) è un’identità – ancora prima di una lingua – poliglotta, che si serve non solo del proprio patrimonio biografico ma anche della conversazione con altre letterature straniere. Come altrə colleghə di altri paesi europei, sono autrici per cui l’etichetta di “letteratura nazionale” è ancora inevitabile ma sicuramente già troppo stretta.
Aria Aber – Una brava ragazza, Mondadori 2025
Traduzione di Aurelia Di Meo
A costo di dire banalità (e questa è una grossa), con un nome così si direbbe naturale che Aria Aber (Münster 1990) sia diventata poetessa e scrittrice. Cresciuta trilingue in Germania (tedesco-farsi-inglese) e residente in paesi anglofoni dagli anni dell’università, dopo una raccolta di poesie intitolata Hard Damage, Aber ha pubblicato il suo primo romanzo scrivendolo in inglese e traducendosi da sola in tedesco. Chiunque sia attivo in entrambe le pratiche, sconsiglierebbe una tale impresa; eppure, per Aber l’esperienza di traduzione, “l’essere-tra-lingue”, è essenziale. In Una brava ragazza seguiamo la diciannovenne Nila, la cui biografia conta più di un punto di contatto con quella di Aber, tra la vita notturna berlinese intorno al B. (qui “Bunker”) e una relazione disfunzionale con un uomo-scrittore-spacciatore molto più grande di lei. La narrazione incede cupa, fa freddo a Berlino nel 2011. Le tende sono sempre tirate, eccetto quando filtrano, come luce lattiginosa, frammenti del passato. L’esilio dalla borghesia afgana scambiata con povertà tedesca, un lutto materno, case popolari, una cultura araba esperita perlopiù come opprimente; quest’ultima è vista come un indistinto “melting pot immigratizio” dall’esterno, mentre nella protagonista diventa un teenage angst che potrebbe essere più energico e invece è un po’ tanto lagnoso. Tra gli ingredienti ormai canonici del “millennial novel”, quello più molesto è proprio l’autodistruttiva opinione di sé – sebbene sia xenofobia subita, interiorizzata. Al di là della svolta narrativa che esemplifica il tema razziale, Una brava ragazza si fa notare proprio nel negativo di questi scatti, nei passaggi ricchi, quasi melò, con cui prende forma l’amore tormentato per la famiglia e le proprie origini. Disseminate ovunque ci sono frasi come “bramava alberi di mandarino e sole violento, paesaggi così insolenti e crudeli da scurire pure cicatrici di guerra” o “l’abisso che respirava sotto ogni edificio [di Venezia e Berlino]” che suggeriscono: superato questo romanzo, Aber forse darà voce a parole indimenticabili. Magari userà la sua poesia come accetta, o magari sarà la cantilena della sua scrittura – non me la so spiegare, chissà, forse un influsso del farsi o l’effetto ammaliante delle lingue non madri ma adottive? – a farci tacere in onore della lettura.
Theresia Enzensberger - La ragazza del Bauhaus, Guanda 2018
Traduzione di Abigail Piccinini
Apprezzata e proficua autrice nata nel 1986 a Monaco, Enzensberger condivide con Aber un’istruzione d’élite all’estero, ma in patria è molto attiva come divulgatrice di letterature (e politiche) transnazionali. Il suo ultimo libro si intitola Dormire (appena uscito in Italia per EDT) ed esplora l’ultimo e tra i più diffusi dei nuovi mali, l’insonnia. Ma il suo primo romanzo è una storia in costume, ambientata durante la Repubblica di Weimar in uno dei luoghi effettivamente più trasgressivi dell’epoca e cioè l’università del Bauhaus. Nel 1921 l’indipendente ma un poco ingenua Louise Schilling lascia l’affluente famiglia berlinese per studiare a Weimar (poi a Dessau), dove mostri sacri dell’architettura e arte contemporanea come Klee e Gropius si aggirano nei corridoi nelle vesti di prof e gli studenti sperimentano non solo con le materie ma anche innovative forme di esoterismo. Cercare di capire sé stessi e il mondo quando si ha vent’anni è, in ogni epoca, una missione che ha sempre qualcosa di magico. Ma oltre all’amore e forse una vocazione professionale, Louise scoprirà diseguaglianze che conosciamo bene anche oggi, proprio mentre altre forme di violenza, molte più radicali, iniziano a tormentare la vita quotidiana nella capitale. Il titolo originale del libro, “Blaupause”, indica la cianografia, il processo che veniva usato per disegnare le planimetrie e che per estensione va a significare anche un piano, un progetto. Ne La ragazza del Bauhaus, non è solo quello picaresco ma anche quello (profezia involontaria?) politico, che illumina la vigilia periferica di grandi eventi storici e mostra così quanto sia importante, per capire il presente, non perdere di vista ciò che succede ai margini. Nota di colore (possibilmente quello del pittore Johannes Itten, nel romanzo docente di Louise): l’estetica della leggendaria accademia ci arriva quasi intatta (nonostante la traduzione un po’ legnosa), proprio come quel meme-foto che circolava tempo fa: i ragazzi del Bauhaus come una band new wave degli anni Ottanta o attivistə queer dell’altro ieri.
Fatma Aydemir – Tutti i nostri segreti, Fazi 2025
Traduzione di Teresa Ciuffoletti
Una saga familiare in cui ogni membro ha diritto a un lungo, intenso capitolo, questa sì che sarebbe una divisione democratica delle voci ed è quello che Fatma Aydemir (Karlsruhe 1986) fa nel suo secondo romanzo, dotato – come il primo (da cui infatti è stato tratto l’omonimo e premiato coming-of-age Ellbogen, “gomiti”, di Aslı Özarslan) – di una “profondità di campo” narrativa capace di insinuarsi nella psiche e nella biografia di cinque personaggi molto diversi. Due genitori anziani (invocati con una seconda persona che trasforma la lettura in un’esperienza ipnotica) e i loro quattro figli, immortalati all’indomani (o poco prima) della morte improvvisa del padre, sospesi tra la Germania e la Turchia – l’anonimità alienante di città qualsiasi come Reihnstadt e la specificità pungente di Istanbul. I segreti sono tali perché non si dicono e perciò neanche io li svelo, ma è proprio la parola, la lingua che definisce anche quando è sconosciuta o assente, la chiave di questo viaggio, che evidentemente ci porta anche indietro nel tempo e forse chissà, come memorandum politico, anche nel futuro.
Esther Kinksy - Di luce e polvere, Iperborea 2025
Traduzione di Silvia Albesano
Da cinefila, critica e pure addetta ai lavori, qui sono di parte. Però ve l’assicuro: questo libro va letto. Scrittrice, oltre che traduttrice dal polacco, russo e inglese, Esther Kinsky (Engelskirchen 1956) è conosciuta da molti per Rombo, quel romanzo inclassificabile che io ho sempre ricordato come un film di Michelangelo Frammartino. La mia associazione non capita del tutto a casaccio, perché con Di luce e polvere Kinsky rivela le origini di uno sguardo cinematografico capace di mostrare “senza dialogo”, che utilizza il linguaggio in modo puro – come un film che scorre solo sulla grazia del proprio medium naturale, visivo. Difficile comprovarlo qui, dato che la sua opera rimane perlopiù non tradotta in italiano, ma Kinsky è stata anche vincitrice del premio tedesco per la migliore scrittura sulla natura. Di luce e polvere ruota intorno al luogo cinema – in principio una piccola sala di paese in Ungheria, un “mozi” – e a tutte le riverberazioni che sollecita: l’atto di guardare, un’azione sociale che fu essenziale e ora è estinta, incursioni biografiche nella vita di Kinsky da frequentatrice di cinema a Londra come Budapest nonché come comparsa nelle esistenze di altri personaggi – un proiezionista, una parrucchiera freelance, un tuttofare serbo – che sfarfallano sulla tela della narrazione tirata a mo’ di schermo. Al centro, una folle ristrutturazione del cinemino abbandonato, nuova casa per vecchi fantasmi. E infatti, come tutte le opere letterarie che lusingano la forma visiva, quasi non si vorrebbero vedere le foto del “mozi” scattate da Kinsky incluse nel libro. Dopotutto “guardare lontano”, come dice il titolo originale, significa anche onorare la forza dell’immaginazione, vedere col pensiero laddove manca rappresentazione figurativa.
Bonus: May Ayim
Lacuna non solo nell’editoria italiana ma in generale nel panorama europeo è il lascito della poetessa e attivista May Ayim (1960 – 1996). Collaboratrice di Audre Lorde durante il suo periodo berlinese e figura cruciale per il movimento degli afro-tedeschi, Ayim ha avuto una biografia straziante ma le sue parole sono lievi come il quotidiano, molto malinconiche ma altrettanto generose. Cito – improvvisando la versione italiana! – dalla sua raccolta Blues in bianco e nero (“blues in schwarz weiss”, 1994): “Talvolta / i bei momenti brillano anche oggi / ferite blandite ai margini sussurrano dolori / in soavi sogni”. Urge rimediare: traduttorə, editorə, fatevi avanti!
Clara Miranda Scherffig, nata a Milano e residente a Berlino, è critica, talvolta traduttrice, spesso consulente per il cinema. Scrive o ha scritto di cinema e letteratura per Berlin Review, Lucy sulla Cultura, il Tascabile, Screen Slate, Film Comment, Another Gaze e altri.
Cose belle che abbiamo letto in giro
Un’inchiesta ha svelato un canale Telegram in cui venivano diffuse immagini di donne prese da Vinted.
È cominciato il processo a P. Diddy.
L’attore francese Gérard Depardieu è stato condannato per violenza sessuale. E c’è chi dice sia un punto di svolta per il #Metoo francese.
Le critiche al nuovo Papa Leone XIV sulla gestione di due casi di abusi sessuali.
In libreria è arrivato per marcos y marcos La libertà è un passero blu di Heloneida Studart, scrittrice brasiliana del secondo Novecento, femminista, militante, giornalista praticamente sconosciuta in Italia.
Eloisa Morra racconta de La mela e il serpente, il testo più noto di Armanda Guiducci, filosofa, critica e scrittrice che è uscito la prima volta nel 1974. Una riflessione sul linguaggio e i tabù del patriarcato utile anche nell'analisi degli odierni femminicidi.
Non è solo una sensazione: i dati mostrano che i ragazzi e i giovani uomini sono in difficoltà.
È uscito La città d’amianto, il nuovo podcast di Sara Poma. Si ascolta su RaiPlay Sound.
Ci vediamo al Salone del libro di Torino? La nostra Giulia C. sarà in giro per il Lingotto, per cui battete un colpo per un saluto! Qui il programma di questa edizione.
A presto,
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Ho appena comprato il libro di Fatma Aydemir, scoperto così per caso su Amazon (lo so, meglio le librerie indipendenti) come suggerimenti in base ai miei acquisiti di letteratura. Mi domandavo: il suo primo romanzo non è stato mai tradotto?