Quando abbiamo immaginato il percorso da fare nel gruppo di lettura del Circolo dei lettori di Torino abbiamo deciso di volerci dedicare a tre scrittrici della nostra generazione, i cosiddetti Millennial.
Dopo l’irlandese Sally Rooney e la cinese Karoline Kan, l’ultimo appuntamento (quello del 17 aprile alle 19) è dedicato alla catalana Anna Pazos e al suo memoir Tagliare il nervo. Un libro in cui, attraverso l’espediente narrativo di molti viaggi e traslochi, l’autrice ci porta a scoprire il nucleo della sua inquietudine e insoddisfazione costante.
Una sensazione che, immaginiamo, in tante e tanti di voi avranno provato tra i 20 e 30 anni. Ovvero, in quel momento della vita, nel quale hai fame di esperienze, ma anche molta paura di rimanere indietro, e navighi a vista, con la paura di perderti qualcosa di fondamentale.
Che abbiate trovato un modo per affrontare la vostra FOMO di vita o che ci siate ancora completamente immersi, speriamo vorrete leggere con noi e commentare questo libro (di cui di seguito trovate un estratto).
Buona lettura!
Una scena di Girls, la serie tv di Lena Dunham in onda tra il 2012 e il 2017.
Tagliare il nervo
Un estratto dal romanzo di Anna Pazos (Nottetempo, 2024)
Seduta su una carrozza della linea L in direzione Brooklyn mi viene in mente: “Vivere a New York è come innamorarsi di un uomo sposato”. La frase mi suona più come un ricordo che come un pensiero originale. La cerco su Google, e il primo risultato è un blog che enumera i prevedibili fastidi della vita urbana: trasporti infernali, affitti inaccessibili, solitudine. Non sono del tutto d’accordo. L’idillio contorto che si vive con New York è difficile da spiegare per le stesse identiche ragioni per cui è quasi impossibile spiegare dall’esterno, e dal futuro, qualsiasi relazione illegittima. Gli aspetti negativi si mostrano facilmente, quasi in modo automatico, eppure sembrano una farsa se enunciati in modo isolato. La vera sfida consiste piuttosto nel trasmettere agli altri la trama di estasi e aspettative, intrecciate alle piccole umiliazioni e alle delusioni, nonché il palpito turbolento tra i due sviluppi possibili finché uno si impone sull’altro. La borsa del Ministero della Cultura arriva poco prima di un attentato terroristico nel centro di Barcellona, e in modo ugualmente inatteso. È agosto e ho un paio di settimane per chiedere il visto e preparare il trasloco. L’ultima immagine prima del decollo è quella di una manifestazione che, impazzita, scende lungo rambla de Catalunya e incolpa degli attentati la casa reale a causa dei suoi interessi bellici in Arabia Saudita. Allontanarmi dal delirio è un sollievo. In età matura risulta ridicolo, ma a ventisei anni si può avere la sensazione di essere in ritardo nella vita. Io credevo di vivere in ritardo, soprattutto a New York. In ritardo, almeno, nel percepire quel particolare stato d’animo che ci vuole all’uscita dell’aeroporto jfk e che prelude a qualcosa di sublime. Sembra quasi che nasciamo con una capacità limitata di sorpresa e di entusiasmo, e se la esauriamo troppo presto inganniamo gli anni che restano con una torpida sensazione di ripetizione. Immersi in questo stato, non possiamo prevedere, e neppure immaginare, gli eventi futuri che scuoteranno le fondamenta di ogni cosa. Malgrado ciò, non faremo a meno di cercarli costantemente, con una certa disperazione, come il tossico aspetta la dose di una droga che magari neppure esiste più. New York è il posto perfetto per questa tipologia di temperamento. Da nessuna parte come qui si sentono a casa le anime sfinite e sovrastimolate, la cui capacità di entusiasmarsi è pari a una cicca schiacciata a Midtown. La città gli promette che a ogni angolo troveranno una dose, nel prossimo appuntamento con una persona promettente, nel prossimo evento rivolto ai professionisti del suo settore. L’angoscia di perdersi una potenziale dose è il combustibile che mantiene attivo il motore della città. Dedico le prime settimane a risolvere le questioni legate alla borsa di studio, che richiede una sfilza permanente e terrificante di iter burocratici, procedure labirintiche su cui pesa la minaccia di perdere la borsa stessa, e perciò l’assegno mensile e la scuola di specializzazione, gli unici due motivi per cui posso risiedere a New York. Malgrado l’angoscia indeterminata e la sensazione di sconfitta che queste procedure generano, non posso fare a meno di pensare a tutti i prodotti culturali che hanno sedimentato in me l’idea di trovarmi al centro dell’universo, perché è qui che accadono le cose importanti. La gente mi sorride quando risalgo lungo la Fifth Avenue per procurarmi qualche documento imprescindibile richiesto dal comitato della borsa di studio. Gli uomini conversano con me nei negozietti di alimentari, mi spiegano che si chiamano bodegas e che l’egg and cheese on a roll migliora assai con la salsa sriracha. Un giorno un vecchio per strada mi tende la mano in un high five improvvisato, che interpreto come un segnale: la città si offre a me in un’esibizione di estrema euforia nordamericana.
Qualche domanda all’autrice
«Tagliare il nervo», ci spieghi meglio cosa racconta questo titolo?
Il titolo originale è “Kill the Nerve”, che deriva da qualcosa che il dentista mi ha detto quando ho avuto un'infezione a un dente: “Dobbiamo uccidere il nervo”. Il nervo funziona come una metafora dell’inquietudine, che cerco di eliminare spostandomi continuamente.
La paura della mediocrità e del fallimento, sono spettri costanti per la voce narrante e per la nostra società in generale: come hai deciso di approcciarti a questo tema? Hai trovato un tuo modo per affrontare questa costante insoddisfazione?
Quando ho iniziato a guardare indietro al decennio che racconto nel libro, ho capito che la paura era sicuramente una forza trainante. Non è molto lusinghiero ammetterlo, perché implica egocentrismo e narcisismo, che, suppongo, siano tratti distintivi della nostra società. Ora ho lasciato per lo più alle spalle quel tipo di preoccupazioni, perché ho un bambino piccolo e non ho nemmeno il tempo di pensare in quei termini.
Il libro è fatto di tanti incontri avvenuti durante i viaggi, persone con cui hai diviso un momento e che poi sono scomparsi, mangiati dal tempo. Che rapporto hai con la nostalgia e con il passato?
Trovo molto strano che siamo abituati ad avere relazioni così intense ma fugaci. Qualcuno può essere il tuo migliore amico, la persona a te più vicina, e poi, quando ti trasferisci in un altro paese, non lo rivedi mai più. Eppure, qualcosa delle persone rimane sempre, e con la scrittura ho voluto rendere loro un piccolo omaggio.
Ci racconti quali sono state le autrici e i libri che più ti hanno ispirata mentre lavoravi a questo progetto?
Difficile dire esattamente quali, ma ci sono diversi autori che avevo letto di recente mentre scrivevo il libro e che probabilmente mi hanno influenzato di più: Doris Lessing, Joan Didion, Janet Malcolm, Natalia Ginzburg. E poi ci sono alcuni autori che mi accompagnano da sempre, come Thomas Bernhard o Josep Pla.
Anna Pazos (Barcellona, 1991) è scrittrice e regista di documentari. Ha collaborato con El País, La Vanguardia, Jacobin e Le Monde diplomatique, tra gli altri. Tra il 2014 e il 2015 ha vissuto a Gerusalemme, dove ha scritto per testate come Haaretz e The Jerusalem Post. Nel 2017 ha ottenuto una borsa di studio Fulbright per la New York University. Nel 2020 ha pubblicato il suo primo cortometraggio autobiografico su BBC Reel, The Circle. A story of love, waves and the arms trade, sulla sua esperienza in barca con il figlio di un trafficante d’armi.
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A presto,
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