«Ancora oggi a tanti anni di distanza mi commuovo quando vedo nel giorno della festa della donna tutte le ragazze con un mazzolino di mimosa e penso che tutto il nostro impegno non è stato vano».
Oggi, lo saprete, è l’8 marzo, la Giornata internazionale dei diritti della donna. Un giorno di sciopero e manifestazioni (qui tutte le informazioni sui cortei organizzati da Non una di Meno), un giorno in cui verranno diffusi dati e analisi sulla condizione delle donne in Italia e non solo. L’occasione, quindi, per riflettere su quale sia la situazione attuale e quali le battaglie più urgenti.
Dal punto di vista storico, c’è un piccolo dettaglio che ci piace sempre ricordare: il perché il fiore dedicato a questa giornata sia la mimosa. La scelta si deve a due partigiane, comuniste e femministe: Rita Montagnana e Teresa Mattei (a cui appartiene la citazione con cui abbiamo inaugurato questa newsletter). Furono proprio loro due a suggerire di utilizzare la mimosa come simbolo della Festa della donna, anziché la violetta, inizialmente scelta. La mimosa, infatti, era meno costosa e «facile da trovare nelle campagne ed è anche il fiore che i partigiani regalavano alle staffette», oltre che fiorire proprio nella prima parte di marzo.
Con il cuore al passato, torniamo al presente, raccontandovi, insieme alla sua autrice, un libro che ci ha accompagnate negli ultimi giorni: torna a trovarci su questa newsletter un’amica di Senza rossetto. È Ilaria Gaspari, che i più affezionati di voi si ricorderanno per una puntata nella seconda stagione del nostro podcast (che si può ascoltare qui). E che è da pochi giorni in libreria con il suo nuovo romanzo, La reputazione, di cui vi raccontiamo oggi.
Buon 8 marzo a tutte!
La reputazione di Ilaria Gaspari (Guanda, 2024)
Una storia di meccanismi crudeli
Intervista a Ilaria Gaspari
Roma Parioli, anni Ottanta. Nel quartiere c’è una piccola ma ben frequentata boutique per signore guidata dall’affascinante Marie-France, signora di una certa età che non ha perso il gusto e lo charme di un tempo. E nemmeno il fiuto imprenditoriale: sull’onda di una tendenza estera ancora poco esplorata in Italia, Marie-France capisce che è il momento di aprirsi al mercato per le ragazzine e stravolge l’offerta del negozio con bauletti Naj-Oleari, anelli di plastica colorata e capi Cacharel. Enigmatica e autoritaria, Marie-France trascina in questa nuova avventura i suoi collaboratori: l’imperscrutabile Giosué, le due giovani commesse Marta e Micol, le fidate amiche Isa e Lorelei, e soprattutto Barbara — giovane studente di Filosofia in stallo con la tesi che Marie-France ha assunto per la sua bellezza e perché vede in lei qualcosa che nemmeno Barbara conosce.
Inizia così La reputazione, il nuovo romanzo di Ilaria Gaspari, da pochi giorni in libreria per Guanda Editore. Il libro arriva dopo nove anni dal suo esordio nella narrativa (Etica dell’acquario, Voland), cui sono seguiti diversi saggi e molti progetti di divulgazione filosofica, e parla di temi molto cari all’indagine di Ilaria: l’estetica, il confine tra apparenza e verità, la calunnia, il peso che può avere nelle nostre vite quando questa è subita ma anche quando è da noi perpetrata.
In occasione dell’uscita abbiamo chiesto a Ilaria di raccontarcelo, partendo dalla fine. Nei ringraziamenti del romanzo, infatti si legge che il libro è in qualche modo ispirato a dei fatti reali. Il cambiamento di rotta nel business del negozio Josephine, nel romanzo, è l’inizio di una serie di conseguenze impercettibili ma via via sempre più irreversibili sulla reputazione della boutique e delle persone che la abitano, dicerie che deflagrano con la scomparsa di una cliente adolescente.
«Molto tempo fa, credo poco dopo aver scritto il mio libro sulle emozioni, quindi tre anni fa, Guido, mio marito mi racconta di aver letto in un libro sulle leggende metropolitane la storia della diceria di Orléans. Nel ’69, in questa quieta città francese, antica e un poco provinciale, si diffonde la voce che una serie di negozi, tutti gestiti da persone di religione ebraica, siano invischiati nella “tratta delle bianche”. Ad accomunare i negozi colpiti dalla calunnia, oltre alla religione dei proprietari, c’è il fatto che vendono abiti per ragazzine: siamo un anno dopo il ’68, i costumi, proprio nel senso di vestiti, si sono rilassati. Sono arrivate le minigonne – questa diceria di dissolutezza che si condensa attorno ai negozi ha gioco facile a prendere piede, grazie alla diffidenza dei parrucconi. La rabbia monta in una sorta di pogrom, poi tutto si sgonfia: ma Edgar Morin, all’epoca giovane ricercatore, raduna un’équipe di colleghi, va a indagare a qualche settimana dai fatti e scrive La rumeur d’Orléans. Capisco subito che era lo spunto che cercavo: da tempo volevo scrivere un romanzo sul rapporto fra realtà e apparenze, e avevo l’idea di raccontare i corpi, come li avevo visti nel periodo in cui lavoravo nell’ambito della moda», ci racconta. Diversi anni fa, infatti, quando viveva a Parigi ed era agli esordi della sua carriera da scrittrice, Ilaria lavorava in uno showroom di alta moda, il negozio di Valentino in place Vendôme. Il suo ruolo era quello della vestiarista, una figura che aiuta le venditrici, che deve conoscere le collocazioni degli abiti, le caratteristiche delle stoffe, e aiutare i modelli a indossare i capi. È stato in quel contesto, ci dice Ilaria, che ha iniziato a pensare di raccontare non tanto il mondo della moda in sé, ma l’angolo da cui, maneggiando i vestiti, aveva imparato a vedere i corpi. «Mi ricordo una volta un modello, di forse vent’anni, anche meno, che si era chiuso in bagno perché gli avevano detto che aveva le spalle troppo larghe per una certa giacca. Che ci si può fare, se si hanno le spalle troppo larghe? Assolutamente niente; è un dato della vita, del corpo», prosegue. «Quello che mi colpiva era il gioco fra la leggerezza della moda, fra quella ricerca di perfezione che era pura arte, e la pesantezza – di regole, di canoni, di disciplina, di fatica – che riguardava i corpi, la loro indocilità».
Non è un caso che un libro che parla del rapporto tra verità e apparenza, di calunnia e di reputazione, del modo in cui le dicerie nascono e si diffondono, sia ambientato nel mondo della moda: la moda è estetica, immagine, esibizione, ma è anche un linguaggio con cui ci mostriamo al mondo ed esprimiamo la nostra essenza. Come ci dice Ilaria, intorno al nostro aspetto si condensa una componente importante della nostra reputazione: il modo in cui appariamo condiziona quello in cui gli altri ci vedono; fino a un certo punto è inevitabile. L’imperativo della bellezza è stato per molti secoli crudele, e ingiusto nei confronti delle vite delle donne: si è insegnato loro che era un dramma invecchiare, ma anche semplicemente ingrassare, dimagrire, cambiare, allontanarsi da un canone ideale. «Penso che sia una delle tante imperdonabili crudeltà di secoli e secoli di potere maschile. Per questo è un tema che mi sta tanto a cuore, letterariamente, e penso che sia bello e liberatorio esplorarlo oggi, in questa fase storica per tanti versi difficile ma anche, non dimentichiamolo, gioiosa: perché di emancipazione. Una cosa che mi rende euforica».
Questo conflitto è incarnato soprattutto nel personaggio di Marie-France, «la maestra, e la madre, e la madrina, e la zia, e l’amica più grande, che tutte vorremmo», una donna forte, volitiva, visionaria, avventuriera, ma anche piena di zone d’ombra e di mancanze, che nonostante tutto è una donna del suo tempo ed è terrorizzata dall’invecchiamento e dalla non aderenza ai canoni estetici tradizionali, in alcuni casi con esiti anche tragici come vedremo nel libro.
«Inizialmente volevo scrivere la storia in forma di inchiesta, o di un'inchiesta “autofiction”, alla Carrère. Ma poi ho capito che per raccontare davvero la forza e la violenza della calunnia dovevo usare la forma del romanzo tradizionale», ci racconta Ilaria quando entriamo più nel dettaglio della struttura del romanzo. La reputazione, infatti, è un racconto che si costruisce lentamente. Narrato in prima persona dal punto di vista di Barbara, la più ingenua e la più inetta tra tutte le figure che popolano l’universo della boutique Josephine; per buona parte del romanzo la ragazza non sa dare un nome alle minacce che montano piano piano intorno al negozio, erodendone lentamente la reputazione. Fatti che Barbara derubrica a coincidenze, e che non riesce o non vuole fermare, contribuendo così suo malgrado al tragico epilogo del negozio. «È stata la sfida del libro. Che ho scritto con voluta, giuliva leggerezza, ma che non è affatto un libro leggero (in un certo senso, ho voluto che la leggerezza apparente fosse un ulteriore trucco, un modo per imbrogliare le carte, per far dire a chi lo legge oh com’è rilassante questo romanzo sulla moda proprio mentre scivola dentro una storia che parla di meccanismi crudeli ma impalpabili: come il chiacchiericcio, le voci, i tradimenti a cui non badiamo nemmeno».
Le chiediamo poi perché abbia scelto di ambientare questa storia proprio negli anni Ottanta, e come sarebbe cambiata se invece si fosse svolta ai giorni nostri, in tempi di gogne mediatiche e crociate social. «Penso che sarebbe stato più noioso, da leggere ma sicuramente, soprattutto, da scrivere. Perché i meccanismi non sono cambiati, sono gli stessi; è cambiata la scala dei fenomeni. Oggi sono talmente giganteschi, macroscopici, a causa dello spazio che la vita online si prende sconfinando in quella offline (che scioccamente, a volte, chiamiamo “reale”, quando è realissima pure quella che viviamo sui social), che per raccontarli non avrei potuto approfittare dell’ombra in cui si insinuano i pettegolezzi, diciamo, di fabbricazione artigianale, che nel libro creano con lentezza la calunnia. In un romanzo sono importanti i chiaroscuri, e gli anni 0 dell’ambientazione mi hanno permesso di mantenerli, di sfruttarli», ci dice. «Inoltre, penso che spesso vediamo meglio le cose se riusciamo a rispettare una distanza fra l’oggetto e il nostro sguardo: quegli anni che racconto, sono stati il laboratorio di quello che siamo adesso. E se li usiamo come un filtro, ci vediamo meglio».
Ilaria Gaspari è nata a Milano. Ha studiato Filosofia alla Scuola Normale Superiore di Pisa e si è addottorata all’università Paris I Panthéon-Sorbonne. Nel 2015 è uscito per Voland il suo primo libro, Etica dell’acquario, a cui è seguito per Sonzogno Ragioni e sentimenti. Per Einaudi ha pubblicato Lezioni di felicità, Vita segreta delle emozioni e Cenerentole e sorellastre. Collabora con diverse testate giornalistiche, realizza podcast, ha una trasmissione su Radio 3 e tiene corsi di scrittura alla Scuola Holden. Vive tra Roma e Parigi. Viaggia molto, spesso con il suo cane Emilio.
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