Il 13 maggio scorso moriva la scrittrice canadese Alice Munro, premio Nobel per la Letteratura nel 2013 e universalmente riconosciuta come maestra del racconto breve contemporaneo. Come spesso accade, la sua morte è stata occasione di celebrazioni e ritratti sui media di tutto il mondo, e di scoperta (o riscoperta) per molte persone lettrici.
Poi a distanza di pochi mesi, il 7 luglio 2024, Andrea Robin Skinner, figlia di Munro, in un lungo articolo sul Toronto Star ha raccontato che il patrigno abusò sessualmente di lei quando era bambina e che la madre quando venne a conoscenza dei fatti rimase con lui.
Nel pezzo Skinner racconta che anni dopo la fine degli abusi, ormai venticinquenne, raccontò tutto a Munro, sposata con Gerald Fremlin dagli anni Settanta dopo la fine del primo matrimonio con il padre di Skinner, e dice che la madre “Ha reagito esattamente come temevo, come se fosse venuta a conoscenza di un’infedeltà”.
Questa storia ha aperto uno squarcio sulla figura della scrittrice amata e pluripremiata, anche e soprattutto per la sua capacità di raccontare la condizione e la psicologia dei personaggi femminili. E ha messo tutte e tutti di fronte a una domanda che ci poniamo sempre più spesso: è possibile separare l’arte dall’artista? E cosa ne facciamo dell’arte delle persone spregevoli?
C’è questo interrogativo, ma c’è molto di più. Vicende come quella di Skinner e Munro ci mettono in una zona di squilibrio non solo come lettrici e come lettori, ma prima di tutto come persone capaci di essere, anche, spregevoli. E allora come possiamo porci di fronte a questa storia? Prova a trovare una risposta oggi Marta Pastorino.
Buona lettura.
Alice Munro (Foto: ZUMA Press, Inc / Alamy)
Cosa pensare di Alice Munro
di Marta Pastorino
“…Poi quella persona depressa si suicidò, e noi che lo amavamo ci sentimmo traditi e pieni di rabbia. (…) Traditi non solo perché il nostro investimento d’amore era fallito ma anche per il modo in cui il suicidio ci aveva portato via la persona e l’aveva trasformata in una leggenda pubblica.”
Qualche anno dopo il suicidio di David Foster Wallace, lo scrittore Jonathan Franzen usò queste parole a proposito della perdita del suo amato amico e collega, la morte aveva cambiato tutto quello che si diceva e pensava di lui.
Pare diversa la sorte capitata alla figura di Alice Munro, scrittrice premio Nobel per la Letteratura 2013, mancata a maggio 2024. Munro era considerata tra le più grandi autrici contemporanee di racconti brevi, e la sua morte recente, in età avanzata, non sembrava destare cambi di prospettiva fino a quando, il 7 luglio scorso, Andrea Robin Skinner, la figlia minore, ha condiviso sul Toronto Star un episodio della vita della madre rimasto segreto fino a quel momento.
Rivolgendosi al mondo, Andrea Robin Skinner ha messo fine al suo, di segreto, spinta dalla necessità di aggiungere un nuovo e determinante pezzo alla storia che si racconta di sua madre, eppure nel panorama e nel dibattito pubblico, i riflettori si sono spenti quasi subito, forse prima che fossimo in grado realmente di rispondere a questa necessità e disegnare un nuovo ritratto di Alice Munro.
Ora che comincia l’autunno, ancora non mi è chiaro cosa pensare e come parlare di lei.
Quella domenica di luglio, Skinner ha confessato al Toronto Star due episodi della sua vita di figlia: l’abuso subito da parte del secondo marito di Alice, quando era bambina, e il silenzio di sua madre, dopo aver saputo quello che era accaduto, anni dopo. La notizia uscita sui giornali raccontava di come Munro abbia deciso di restare accanto al secondo marito, dopo la condanna di quest’ultimo da parte del tribunale canadese, e infine di come i rapporti tra madre e figlia si siano interrotti.
Ad approfondire i dettagli, emerge la comprensione su quanto il silenzio sia stato sistemico: non solo da parte della madre, ma anche del padre, che venne a sapere dell’abuso quella stessa estate e scelse di non dirlo ad Alice. Un silenzio poi mantenuto non solo dalla famiglia, quando la madre lo venne a sapere da Andrea stessa, ma da tutti coloro che ne erano a conoscenza con lo scopo di preservare e tutelare l’immagine della scrittrice, la sua leggenda.
A luglio, nelle settimane successive la rivelazione, dopo un primo moto di sgomento e incredulità, mi è parso che il dibattito pubblico, qui in Italia, cercasse soprattutto di rispondere alla domanda collettiva se leggere ancora i suoi racconti, o come farlo, concentrandosi su di lei come autrice, quasi come se non servisse o fosse difficile, o forse troppo doloroso, fermarsi un passo prima, e parlare di quello che era successo, approfondire il senso dei fatti accaduti, per come ci sono stati riportati ora.
Proprio come il suicidio di David Foster Wallace ci ha fatto parlare anche di depressione, isolamento, psicofarmaci, perché non fare lo stesso con Alice Munro, e approfondire temi come il silenzio, l’auto-assoluzione, l’omertà?
Solo facendolo, pensavo a luglio, avremmo potuto prendere parte a quello che la Munro’s Book di Victoria aveva definito come il processo di guarigione di una famiglia, e di una società, a mio avviso.
La nostra. Ma perché accada, mi sembra un’occasione preziosa restare su di lei, su di una donna come Alice Munro.
Tra tutte le cose che il patriarcato ci ha tolto, forse ce n’è una di cui si parla poco, una che le femministe degli anni settanta hanno provato a realizzare, ma che la società di oggi non ricorda: la possibilità per le donne di prendere parola pubblica mettendoci in discussione, non solo, quindi, nei termini della necessaria rivendicazione di diritti e differenze, ma in termini di responsabilità, anche le nostre.
Penso a uno spazio dove i temi del pensiero femminista siano in grado di metterci in una zona di squilibrio sufficiente a trasformare quella parte di società su cui abbiamo presa, quella che riguarda noi stesse e non gli altri.
Oggi, il dibattito di genere mi pare che sia tanto impegnato in battaglie linguistiche o battaglie reali, ruoli e diritti da riconquistare e tutelare, e meno si trova l’occasione per altro: per il tempo del pensiero lento, il tempo della comprensione. A volte la mente ha bisogno di vagare, altre di sostare, non sempre di produrre risposte rapide, soluzioni efficienti che però abitano la struttura patriarcale che vorremmo scardinare, all’interno del nostro stesso pensiero.
Eppure non molto tempo fa, negli anni settanta come dicevo, questo tempo c’era e aveva un nome: le femministe italiane lo avevano chiamato pratica dell’autocoscienza, in particolare fu Carla Lonzi, che per fortuna stiamo ricominciando a leggere, ad associare la parola autocoscienza a una attività politica di incontro e riflessione su argomenti che erano centrali per le donne in quel momento.
Si trattava di un luogo non privato, non individuale, e neppure completamente pubblico, uno spazio di di dialogo che portava alla costruzione della relazione nella differenza, con gli altri e con il mondo.
È questo che ho desiderato quando ho letto la lettera di Andrea Skinner sul Toronto Star, parole che mi aiutassero a stare in quella zona oscura del silenzio compiuto da una donna, da una donna come lei, nei confronti di sua figlia. Parole che non condannassero, ma che comprendessero, squarciassero, facessero luce, che mi invitassero a chiedere, proprio a me, in quanto donna, madre, seconda moglie, matrigna, scrittrice: mi riguarda?
Mi sono chiesta da dove partire.
Potrebbe servire osservare la società rurale, misogina e tradizionalista dalla quale proveniva Munro, può essere utile parlare di cosa voglia dire essere madre di tre figlie e desiderare di essere altro in quella stessa società, oppure ripercorrere i dettagli della sua biografia: la fuga romantica a vent’anni, il matrimonio visto come unico modo per andare via da casa, il suo autodefinirsi una ingenua ragazza vittoriana, il suo scrivere di notte dopo aver messo a nanna le bambine, il suo dirsi esperta nell’arte dell’inganno non riconoscendosi il diritto di scrivere… O ancora, la morte della seconda figlia, a poca distanza dalla nascita e dopo la decisione di darla in affido, un divorzio, un secondo matrimonio e ora quest’ultimo pezzo estremo di vita: una donna che sceglie di restare con il marito abusante, e rompe i rapporti con la figlia abusata, Andrea Robin Skinner.
Quello che sappiamo di lei, Alice Munro, ora, in una ricostruzione postuma e senza possibilità di replica, ci fa precipitare con lei, se accettiamo la sfida. La sfida di essere insieme in una caduta profonda e improduttiva, abbastanza spaventosa per chi lo voglia fare, o per lo meno per me, perché il mio punto cieco possa essere fertile per altre persone, di qualunque genere. Non è il mio errore che crea la mia colpa, ma è il mio sguardo su di esso invece che crea la cura.
Solo dopo, posso riaprire i libri di Munro e cercare tra tutti i racconti quello che mi fa più male, quello che mi fa chiedere, ascoltando il mal di pancia: sono stata mai come Jinny, per sceglierne una, sono stata infine su un ponte galleggiante, allo stremo delle forze, affamata e malata di cancro, a ricevere il bacio romantico di uno sconosciuto, come risposta alle meschinità della mia relazione di coppia?
Di questo mi parla, il finale del racconto: delle colpe del romanticismo nel sistema del patriarcato. Da qui riprendo a leggere Alice Munro, sotto la luce di oggi.
Dalle parole di Skinner, sappiamo che la madre reagì da donna tradita e ferita, e che anni dopo, di fronte alla condanna in tribunale, scelse di restare comunque accanto a quell’uomo.
Da quando ha lasciato la casa dei genitori, Munro non è stata mai sola, se non nel tempo del divorzio, tra il primo matrimonio e il secondo. Quasi come se la sua identità fosse determinata da due costanti: essere scrittrice, ed essere moglie. Due ruoli a cui non ha mai rinunciato, per cui ha lottato, fatto sacrifici, e che ha voluto a tutti i costi, rigorosamente fino alla fine della sua vita. Come se non potesse farne a meno.
Chiunque sia stato a contatto con le dipendenze da sostanze, che si tratti di droga, videogiochi, lavoro, cibo, alcool, social, puff, fantasie romantiche o altro ancora, sa che una persona dipendente è disposta a qualunque cosa pur di avere la sua sostanza. Non può farne a meno, anzi ne vuole sempre di più. La sostanza riempie un vuoto, crea assuefazione. Ti trasforma, modifica la tua identità. La sostanza detta legge.
A coloro che, in quei giorni caldi di luglio, hanno commentato le azioni di Munro come scelte egoistiche d’amore, forse si potrebbe chiedere di provare a ridefinire quella cosa spaventosa, che forse non è stata una scelta. Può far venire i brividi la mia affermazione, però, sappiamo bene, per fare un altro esempio, che non possiamo chiamare amore, il possesso o la gelosia di chi è protagonista di azioni estreme e terribili come il femminicidio. Così non era amore quello di Munro, forse. Oggi sappiamo cos’è la dipendenza emotiva, sappiamo che esistono le relazioni tossiche, che esiste la disfunzione affettiva e abbiamo trovato dei modi per vederla e definirla, ed è importante farlo, senza assolvere o giustificare, pur nel campo delle ipotesi.
Alice Munro era una forse una persona dipendente, o forse aveva vissuto qualcosa di simile lei stessa? O forse quella era la sua norma, non lo sapremo mai. Di sicuro c’è tanto, tantissimo dolore, intorno a questo racconto che sua figlia ci ha consegnato, e così, diciamo addio a una scrittrice come la conoscevamo prima, per provare a conoscerla ora.
Che si tratti di cercare tra la sua biografia o tra le sue pagine, credo che sia utile e necessario non stare in silenzio, ma alimentare la costruzione di un nuovo profilo, superare quel senso di possibile tradimento di un’idea, di un’immagine, di un mito.
Nulla sarà mai tolto alla maestria formale e tecnica dei suoi racconti, ma qualcosa necessariamente si trasforma nei nostri occhi sui temi che i suoi racconti contengono, alla luce dei nuovi dettagli.
Con autocoscienza, possiamo specchiarci in quelle parti di noi in cui non c’è da essere orgogliose, quelle parti inermi che non hanno capacità di reagire, che portano silenzio, auto-assoluzione, compiacenza, omertà, manipolazione, negazione, debolezza, rimozione o rifiuto.
Anche se non siamo mai arrivate a fare ciò che ha fatto Munro, né mai ci arriveremo, c‘è qualcosa che ci riguarda? Possiamo chiedercelo ogni volta in cui siamo madri, mogli, amiche, colleghe, se siamo figlie, o compagne, ogni volta in cui non siamo in grado di lasciare, o di parlare, o di testimoniare, perché la nostra parola ci spingerebbe in una zona insopportabile o pericolosa per noi o per la società che abitiamo, o ancora quando ci accorgiamo che non siamo capaci di proteggere qualcun altro o noi stesse, perché non l’abbiamo mai visto fare.
Fermarmi.
Ogni volta in cui sto per tacere, posso rallentare, guardarmi intorno e cercare uno spazio in cui, invece, parlare.
Marta Pastorino è narratrice e formatrice. Per oltre vent’anni la sua ricerca si è divisa tra scrittura, arti performative e pratiche di cura e consapevolezza. Da almeno dieci anni è docente nella didattica della Scuola Holden, in molti corsi tra cui Academy, Laurea Triennale, in cui si occupa di Narrazione e Intensità. Nell’ultimo anno ha condotto un laboratorio con i giovani adulti del Carcere Minorile di Torino, Ferrante Aporti, corsi di storytelling per Emergency sui temi delle migrazioni e contro il linguaggio violento, seminari sul rapporto tra corpo e scrittura alla Lavanderia a Vapore di Torino, centro per la Danza Contemporanea. Editi, si trovano i romanzi Effetti collaterali (2006) per Meridiano Zero e Il Primo gesto per Mondadori (2013). Ha collaborato alla stesura di antologie per le scuole o testi sullo Scrivere: tra gli altri, ho scritto il volume Il corpo, uscito con il Corriere della Sera in Lezioni di Scrittura, a cura di Scuola Holden. Il suo interesse è legato alle tematiche che riguardano il desiderio, il piacere e il corpo, in particolare il corpo delle donne. Il suo account Instagram è @ayrissmarta.
Cose belle che abbiamo letto in giro
In Corea del Sud la misoginia è un’emergenza nazionale: Seoul si è tenuta una grande manifestazione per chiedere al governo un’azione concreta contro i crimini sessuali digitali, un fenomeno che ha ormai assunto le dimensioni di un’epidemia.
In Giappone si discute da tempo di cambiare una legge che impedisce alle donne sposate di tenere il proprio cognome.
In base a un'inchiesta della BBC l'ex proprietario di Harrods Mohamed Al Fayed, morto un anno fa, avrebbe abusato di molte sue dipendenti.
Realtà e rappresentazione della violenza femminile attraverso i film di Justine Triet, Alice Diop e il programma Rai Un giorno in pretura.
PJ Harvey racconta come porta sul palco i personaggi di I Inside the Old Year Dying.
Una conversazione con Elif Batuman, l'autrice dell'Idiota e di Aut-Aut.
Jacob Elordi nella parte di Heathcliff in Cime tempestose non piace a nessuno.
Che cos’è il femminismo di periferia.
Arriva al cinema Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini, lettera d''amore nei confronti di suo padre Luigi, regista della commedia all'italiana e delle Avventure di Pinocchio.
Due nuovi libri che vi segnaliamo: Cosa può andare storto della sessuologa Roberta Rossi e la giornalista Giulia Balducci e il romanzo Succede di notte di Valeria Montebello.
A presto,
Vuoi darci una mano?
Senza rossetto è un progetto a budget zero. Tutto il lavoro dietro al nostro podcast e a questa newsletter è volontario e non retribuito, ma è un lavoro che richiede molte forze e anche qualche soldo. Se vuoi aiutarci a sostenere le spese di produzione, incoraggiarci o anche solo offrirci una caffè puoi farlo attraverso PayPal usando la mail info@senzarossettopodcast.it, oppure puoi impostare una donazione ricorrente sul nostro profilo Patreon. Ogni aiuto sarà per noi prezioso, quindi grazie!
Seguici!
Il nostro sito è senzarossettopodcast.it, ma ci trovi anche su Facebook, Instagram e Twitter.
Se invece hai idee da proporci, suggerimenti da darci, segnalazioni da fare (anche queste, per noi, sono importanti) scrivici all'indirizzo info@senzarossettopodcast.it. E se questa newsletter ti è piaciuta, girala ai tuoi amici!