Complice il premio vinto alla Berlinale; un podcast realizzato da Stefano Nazzi con Anna Sergi, docente in criminologia; una campagna pubblicitaria massiccia e qualche polemica, nella nostra bolla si è molto parlato di The Good Mothers, serie targata Disney+, dedicata alle donne che hanno sfidato la ‘ndrangheta.
Il punto di partenza, come leggerete nel pezzo che ha scritto per noi Silvia Grasso, è la scomparsa di Lea Garofalo, avvenuta il 24 novembre 2009. Un evento tragico che, nella narrazione, spinge altre donne legate ai clan mafiosi a ribellarsi e a cercare una via di fuga. Denise Cosco, figlia di Garofalo, Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola: con le loro rivelazioni hanno contribuito alle inchieste della magistratura, mettendo in pericolo (e a volte perdendo) la propria vita.
Pur avendo ricevuto qualche critica, la serie tv offre molti spunti di riflessione. E diventa l’occasione anche per conoscerla questa storia, così vicina a noi.
A voi The Good Mothers è piaciuta? Se volete dirci la vostra, basta rispondere a questa mail.
Buona lettura!
Un’immagine tratta dalla serie tv The Good Mothers
Le madri buone sono quelle che combattono il patriarcato
Silvia Grasso racconta la serie tv The Good Mothers
Sentiamo parlare, da sempre, di buone e brave madri.
Quelle che tutte dovremmo essere per inclinazione naturale e istinto biologico o quelle che lo sono già, diventando non solo esempi perfetti da seguire ma che sono soprattutto garanti della costituzione del nucleo famigliare su cui si regge la nostra società.
Sentiamo parlare, da sempre, anche di madri cattive e imperfette, definizione con cui vengono identificate tutte quelle donne che vivono la maternità (e il ruolo sociale ad essa legato) in modi alternativi e opposti al modello classico della buona madre, la cui identità è completamente dissolta e sovrapposta a quella della propria famiglia. Così, molto spesso, quelle madri considerate non a caso snaturate vogliono affermare se stesse al di là del proprio ruolo, cercando di sfuggire a regole sociali e definizioni troppo rigide che vincolano la loro esistenza, diventano cattive per il solo fatto di ribellarsi a un sistema e autoaffermarsi, ovvero compiere delle scelte. Diventano cattive per figli e figlie, cattive per se stesse, cattive per la società.
La prima cosa che mi è venuta in mente quando ho iniziato la visione di The Good Mothers, la serie originale Disney+ disponibile sulla piattaforma dal 5 Aprile, è stata proprio la suggestione derivata dal titolo: chi sono veramente le brave madri?
La seconda cosa a cui ho pensato è che l’abisso in cui sprofonda la lunga e articolata storia delle donne sommerge tutti gli aspetti, i campi, i ruoli e le vite di tutte quelle donne la cui esistenza è stata determinante, nel bene e nel male.
Lo stesso destino è toccato alla storia delle donne all’interno delle organizzazioni criminali: che si tratti di mafia, ‘ndrangheta o camorra, si è sempre pensato a questo tipo di strutture sociali come agite e governate esclusivamente dagli uomini in cui le donne avessero una posizione subalterna, emarginata e irrilevante, comune tra l’altro al tipico ruolo che la società patriarcale affida storicamente a queste. Del resto, ormai sappiamo che anche nel sistema chiuso della criminalità organizzata persiste la stessa divisione tipica della cultura patriarcale che separa lo spazio pubblico, riservato agli uomini, da quello privato, riservato alle donne alle quali il codice d’onore affida la cura domestica e famigliare, richiedendo la fedeltà eterna al clan di appartenenza.
Nel libro La mia parola contro la sua, la giudice Paola di Nicola in un lungo capitolo che indaga il legame profondo e storico che lega le donne alla mafia, riporta gli studi della sociologa Alessandra Dino la quale sostiene che se la presenza femminile all’interno di Cosa Nostra è stata ignorata per tantissimo tempo lo si deve principalmente al fatto che la narrazione che ne è stata condotta è ad opera prevalentemente maschile (che si tratti di giudici, giornalisti o mafiosi) e che questo abbia contribuito a perpetuare quel particolare stereotipo di genere che pensa l’universo femminile come secondo, passivo, invisibile e senza voce, anche all’interno di questi sistemi.
Eppure, la storia dei ruoli femminili all’interno delle organizzazioni mafiose e ‘ndranghetiste ci racconta una realtà differente dove le donne, ancora una volta, non solo hanno storie diverse e non possono essere riunite in un solo e grande gruppo neutro che le classifica e identifica nel loro genere ma che, soprattutto, proprio in nome della passività e incapacità tipiche del loro stereotipo, sono state lasciate libere di muoversi per veicolare informazioni e prendere parte attiva alle operazioni dei loro clan.
Con molta probabilità, l’intuizione della narrazione influenzata da una specifica prospettiva culturale è giusta e per questo motivo l’importanza di produzioni come The good mothers, reduce dalla vittoria della prima edizione del premio Berlinale Series Award 2023, risultano essere particolarmente urgenti e importanti da far arrivare al grande pubblico.
I 6 episodi, diretti da Julian Jarrold e Elisa Amoruso, attingono alla realtà, a storie realmente esistite. La serie è infatti tratta dal romanzo omonimo (non ancora tradotto in italiano) del reporter britannico Alex Perry che ha voluto raccontare le storie vere di donne che hanno cercato di salvare se stesse e i propri figli diventando collaboratrici di giustizia e rompendo il patto di silenzio e fedeltà che era stato loro imposto fin dalla nascita, opponendosi alla ‘Ndrangheta.
Il racconto parte dalla scomparsa di Lea Garofalo (Micaela Ramazzotti) la quale, dopo essere diventata testimone di giustizia, aveva acconsentito ad incontrare nuovamente il suo ex marito, Carlo Cosco (Francesco Colella) per il bene di sua figlia Denise Cosco (interpretata da Gaia Gerace che abbiamo conosciuto come Lila de L’amica Geniale). Con la storia principale si intreccia quella tragica di Maria Concetta Cacciola (Simona di Stefano) e di Giuseppina Pesce (interpretata con un accento perfetto calabrese da Valentina Bellè). C’è poi una figura molto particolare che unisce e segue tutte le tre storie e che incarna in qualche modo quel punto di vista differente che necessitano le nuove narrazioni ed è rappresentato dalla pm Anna Colace (Barbara Chichiarelli) che ha avuto l’intuizione di capire che, se le donne costituiscono le fondamenta e le pareti della struttura famigliare mafiosa, allo stesso modo possono sovvertire profondamente l’ordine delle cose e far crollare il sistema convincendole a collaborare con la giustizia e facendo leva sulla loro condizione di solitudine.
La serie non riesce solo nell’intento di far conoscere al grande pubblico (anche straniero, sarà distribuita in 76 paesi) la storia di queste donne, ma riesce anche a fare luce sulla vita nascosta di esistenze piegate al sistema corrotto e criminale che, in realtà, nascondono personalità volitive, desideranti, ribelli e vive.
Tutte le storie delle donne coinvolte, sono attraversate da forza e coraggio ma quello che colpisce è che, in tutte, non mancano momenti di crisi e fragilità causati dal senso di colpa instillato proprio dalle famiglie di appartenenza e, soprattutto, instillato dalle donne nei confronti di altre donne. La serie mostra benissimo, infatti, come le madri di Giuseppina Pesce e di Maria Concetta Cacciola siano esempi di madri che agiscono nel nome della famiglia o, per meglio dire, nel nome del padre. Per loro è inconcepibile la libertà e la scelta di vita delle loro figlie nella misura in cui è inconcepibile pensare la loro esistenza al di fuori del nucleo famigliare ‘ndranghetista e al di fuori dai loro ruoli di mogli e madri.
Il desiderio legittimo di Maria Concetta Cacciola di esplorare la propria vanità e di avere una vita personale al di fuori dal controllo del padre, la relazione sentimentale extraconiugale di Giuseppina Pesce o, ancora, la testimonianza in tribunale di Lea Garofalo contro il marito, vengono considerati tradimenti imperdonabili nei confronti degli uomini e quindi, di conseguenza, nei confronti della legge della famiglia del clan.
Forse è vero che, come scrive la scrittrice Alba de Cèspedes, “la coscienza di donna suggerisce un sentimento di colpa” ma credo sia altrettanto vero dire che quel senso di colpa è uno strumento funzionale al sistema, una costruzione che garantisce il mantenimento della cultura patriarcale mafiosa e ‘ndranghetista, condannando le donne al silenzio e alla solitudine.
In questo senso, le donne possono avere il potere dei poteri, perché se possono contribuire al mantenimento del sistema con il loro silenzio, allora possono anche distruggerlo con la loro parola, esattamente come aveva intuito la pm Paola Colace. Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola e Giuseppina Pesce, hanno storie molto diverse eppure sono accomunate dalla scelta e la volontà di salvare i propri figli e figlie, oltre che se stesse.
A questo punto, dovrei forse rispondere alla domanda iniziale e dire che le buone e brave madri non sono quelle che si piegano al sistema e annullano le proprie identità, ma sono quelle che, al contrario, riescono a ribellarsi con coraggio a qualsiasi tipo di costrizioni e, come in questo caso, alla criminalità organizzata, quelle donne che hanno combattuto e combattono la struttura famigliare patriarcale con la forza e il coraggio di non cedere mai ai ricatti morali della criminalità organizzata, nemmeno nel nome della famiglia e dell’onore. Le buone madri sono quelle che, come ha fatto Lea Garofalo, riescono a lasciare una eredità ai propri figli, una eredità fatta di sacrificio, solitudine profonda, isolamento e dolore ma che porta con sé la speranza di poter sovvertire il sistema e distruggerlo cambiando l’ordine delle cose.
Di tutto questo Denise Cosco, del resto, ne è testimone raccogliendo una eredità pesante lasciata anche a costo della vita. Quella di sua mamma.
Silvia Grasso è autrice e filosofa femminista. Nasce a Messina dove si laurea presso il Dipartimento di Scienze Cognitive, psicologiche, pedagogiche e degli studi culturali e scopre la passione per gli studi filosofici che la porterà a specializzarsi in Filosofia presso il Dipartimento di Studi Umanistici di Pavia. Attualmente si occupa di Storia e Filosofia dei femminismi, filosofia della narrazione e dialogo tra filosofia e letteratura con particolare attenzione all’opera di Simone de Beauvoir, Annie Ernaux e Elena Ferrante. Insieme a Carolina Capria è ideatrice, autrice e voce del podcast originale Storytel Le parole di Lila e Lenù, una guida alla lettura attraverso sei parole chiave dell’opera più famosa di Elena Ferrante. Dal 2019 fa parte del “Tavolo delle ragazze” progetto collettivo a cura di Giusi Marchetta che si occupa di introdurre ragazze e ragazzi ai temi e alle riflessioni femministe, creando spazi di riflessione e confronto tra generazioni diverse. Tra le sue ultime pubblicazioni: “Diritti a rischio: L’aborto” in Tutte le ragazze avanti (a cura di Giusi Marchetta, ADD editore).
Cose belle che abbiamo letto in giro
Migrazione, identità, memoria in un viaggio tra ieri e oggi: Roots - Radici di Bruna Martini (BeccoGiallo) è un graphic memoir sull’emigrazione italiana di ieri e di oggi.
Sempre tra le letture vi segnaliamo Contro il femminismo bianco di Rafia Zakaria, che esce oggi per add editore.
E poi Questo è il ciclo di Anna Buzzoni (Mimesis), di cui avremo presto occasione di parlare insieme all’autrice.
Storia di Lucia, l’influencer povera.
Si parla molto bene di Beef, la serie Netflix con tra i protagonisti la stand-up comedian Ali Wong.
Come funziona il parto in anonimato in Italia.
Molti parlano a sproposito della ritransizione di genere, un fenomeno raccontato nel romanzo Detransition, baby di Torrey Peters (in arrivo in Italia a maggio).
Alcune donne sudcoreane stanno combattendo la misoginia dilagante nel paese facendo a meno degli uomini.
A Milano, all’Osservatorio della Fondazione Prada, ha inaugurato una mostra dedicata all’artista americana Dara Birnbaum.
Per molto tempo per raccontare le donne che hanno partecipato alla Resistenza si è ricorsi a immagini stereotipate e rassicuranti, ma le testimonianze dirette e alcune scrittrici ci restituiscono una storia molto diversa. Per approfondire, vi consigliamo La Resistenza delle donne di Benedetta Tobagi (Einaudi).
A presto,
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