«E tu vorresti essere madre un giorno?».
Ultimamente mi è capitato spesso, a me Giulia P., di sentirmi fare questa domanda. Dalla persona con cui stavo uscendo, dalle amiche davanti a un caffè, da un collega durante una cena di lavoro. Succede, presumo, perché ho 30 anni e tutti intorno a me si aspettano che a un certo punto vorrò una famiglia e dei figli. Succede, anche perché, alcune delle mie care amiche sono diventate madri nell’arco dell’ultimo anno e, quando se ne parla, la discussione porta sempre lì.
«Dici così adesso, ma poi vedrai», «Forse non hai trovato la persona giusta», di solito le risposte standard sono queste. Ma è inevitabile riflettere su quanto il desiderio di essere o meno madre sia una questione centrale della società in cui viviamo: in quanto donne dovremmo volere dei figli, altrimenti la nostra vita sarà imperfetta.
Come insegna la sociologa Laura Kipnis, l’essere portate in quanto donne a essere madri, il cosiddetto istinto materno, non esiste, anzi: questo costrutto è nato durante la Rivoluzione industriale, quando la maggiore disponibilità di lavoro contribuì alla riorganizzazione dei ruoli in famiglia. Da lì è iniziata la narrazione romantica della maternità che ci portiamo dietro ancora oggi e che condiziona molte delle risposte che ho ricevuto parlando di questo argomento.
Una delle cose che più mi spaventano dell’idea di diventare madre è il parto. Oltre al problema della violenza ostetrica, che riguarda il 21,2% delle donne secondo una ricerca del 2018, c’è la questione del dolore e di ciò che quel momento porta con sé: una definitiva perdita di se stesse, a favore di una nuova vita. Lo so, sono drammatica, ma poi abbiamo iniziato a lavorare a questa newsletter e Clara Ramazzotti, contributor di questa settimana, ci ha aiutate a dare un nome a questa paura che aleggia sopra di noi: tocofobia.
Illustrazione di Milly Miljkovic per Senza rossetto
Le galline del Massachusetts non covano i loro pulcini
di Clara Ramazzotti
Un’esperienza che si dovrebbe risparmiare è la classica cena in famiglia, o con gli amici diventati neogenitori, in cui arriva quel fatidico «Allora...». Se si è in coppia e se si è donne potreste sentire, in ordine: lo fate, figlio, bambini, e voi? Magari siete tranquille nel ricevere questo tipo di domande, e va benissimo, oppure rientrate in un ampio spettro di persone la cui vita non prevede, nel breve o lungo periodo, una gravidanza e che, soprattutto, non ne vogliono discutere tra una battuta sul noncenecoviddi e il tiramisù. Partendo dal presupposto che domande sui propri obiettivi familiari (o l’assenza di essi) andrebbero rivolte in maniera diversa, va detto che diventare genitore non è scontato né innato e le ragioni per non volerlo sono innumerevoli, tra cui motivazioni mediche e psicologiche, e proprio una di queste ha a che fare con una novella del diciannovesimo secolo che lessi nell’aprile del 2019 e che mi colpisce ancora oggi.
La Marchesa di O. di Heinrich von Kleist, scritta nel 1808, ha per protagonista la Marchesa, che non sappiamo esattamente dove viva e che nome abbia, apprendiamo che si trova in un luogo imprecisato del Nord Italia ed è una persona rispettabile. Decide di scrivere una lettera a un quotidiano locale e chiede di pubblicare il suo appello. Pur essendo vedova e con due figli, scopre di essere incinta, ma ignora come sia potuto accadere e chi sia il padre, quindi quest’ultimo è cortesemente invitato a salvare la sua reputazione e sposarla. Apparentemente, siamo di fronte al mistero di una donna che, per evitare una sicura vergogna sociale, preferisce dettare le regole della sua caduta. Poche pagine dopo l’incipit, la storia di Kleist diventa più complessa: entrano in gioco lo stupro, gli abusi sessuali del padre di lei, la pressione di una famiglia disattenta e il potere assoluto degli uomini sulla vita e sui genitali delle donne, impuniti e anzi premiati anche quando sbagliano. La Marchesa non cercava un terzo figlio e ha preferito rimuovere dalla sua memoria l’assalto di uno sconosciuto, secondo un meccanismo psicologico spiegato da Freud e associato all’isteria, termine che riassunse e appiattì tutti i malesseri delle donne occidentali. A questo proposito, Thomas Szasz scrisse che l’isteria non è una vera malattia, ma un mito forgiato dalla psichiatria per la sua stessa gloria. Aveva ragione, la Marchesa non è pazza e neppure una cattiva madre, è una vittima dei frequenti abusi presenti nelle famiglie nobili e borghesi del diciannovesimo secolo.
La letteratura, le serie tv e il cinema hanno ritratto spesso l’ansia dovuta alla gestazione, non a caso molto utilizzata nel genere horror, ma sebbene si senta parlare di depressione post-partum, si conosce meno un altro aspetto della maternità che dovrebbe annientare qualunque associazione della gravidanza con “l’esperienza migliore che una donna possa vivere” e che “ti rende luminosa”. La tocofobia è un luogo molto buio. Oggi, tra il 20 e il 25% delle future madri sperimenta una sensazione di ansia incontrollabile che si tramuta velocemente in terrore, insonnia, attacchi di panico e tremori incontrollabili. Una situazione in cui l’idea di partorire diventa un’esperienza traumatica e che si manifesta anche in madri di secondi figli. La psicologia contemporanea spiega che le donne più soggette sono single, incluse divorziate e vedove, hanno un basso livello d’educazione, sono disoccupate. Provano paura al pensiero del feto che cresce e si muove nel loro corpo e sono spaventate dalle conseguenze della gravidanza sulla loro vita. Non si tratta di una novità, fu scoperta nel 1797 studiando donne con tendenze suicide che si trovavano in stati avanzati delle loro gravidanze e poiché per anni si è creduto, e tra il serio e faceto si pensa ancora, che la pancia di una donna incinta fosse uno scudo impenetrabile e protetto, insistendo per secoli sul concetto dell’istinto materno, non si è preso abbastanza in considerazione che il problema potesse essere al di dentro e non al di fuori. Louise Victor Marcé, nel 1858, scrisse che le donne con tocofobia «sono convinte che moriranno a causa di questa disavventura che le ha colpite e [...] attivano una melanconia che sopraffà tutti i loro pensieri». Disavventura è l’immagine dominante poiché rimanere incinta a seguito di uno stupro è tra le principali ragioni dell’insorgere della fobia, sebbene non sia l’unica. La Marchesa, non appena deve accettare di essere incinta, inizia immediatamente a tremare, «più violentemente che mai. Si sente come se dovesse entrare in travaglio da un momento all’altro, e aggrappandosi alla levatrice con una paura convulsa, supplicandola di non lasciarla». La protagonista viene schernita dal suo medico e ripudiata dalla famiglia perché, implicitamente, è ridicolo che una donna non voglia partorire e non si senta pronta a farlo. Bisogna soffermarsi sull’idea per cui l’utero di una donna sia in qualche modo sempre da utilizzare, che non possa restare senza un senso, un obiettivo. Quando leggiamo gli effetti della tocofobia sulle donne, credo che sia molto complicato accettare acriticamente che l’istinto materno sia in noi e che sia crudele, da parte della madre, non voler sacrificare la propria vita per quella del feto. La storia della Marchesa ruota attorno a un evento di cui nessuno vuole parlare, come un enorme elefante nella stanza, e solo la protagonista accenna, con i gesti, al disagio che prova nel dover vivere nove mesi con qualcosa che non cercava, e poi sposare qualcuno che non ha mai voluto. Tutto questo mi ricorda una conversazione con la mia amica Mary, americana del Massachusetts, vicino a Boston, che scrollando foto delle sue bellissime galline piumate mi diceva che molte non sono “broody”, cioè non sono pronte a covare e non intendono neppure farlo. Le galline, insomma, non hanno l’istinto materno che ci aspettiamo da loro perché quest’ultimo non esiste neppure tra gli animali.
Clara Ramazzotti vive a New York dal 2017. Insegnante e critica tv, lavora con Esquire, Vanity Fair, Link idee per la tv e Wired. Il suo account Instagram è @clararamazzotti dove parla spesso di America e serie televisive.
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Domenica 27 settembre a Vercelli, ore 15:30. All’interno di Raccolti Festival presso l’ex Monastero di San Pietro Martire - Area Pisu con Mary Ferrari. Qui i dettagli.
Sabato 4 ottobre a Polesella (Ro), ore 17:30. Per il Mircofestival delle Storie alla Sala degli Agostiniani con Giorgia Brandolese. Qui tutte le informazioni.
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