Giugno è arrivato e, senza rendercene conto, ormai sono quasi sei mesi che portiamo avanti la nostra challenge di lettura #nonununicastoria.
Per chi non lo sapesse, si tratta di una sfida che ha lanciato la nostra amica Ludovica Lugli a inizio 2021 e che ha l’obiettivo di farci leggere più autori (se autrici ancora meglio) da più Paesi del mondo possibile in dodici mesi (l’abbiamo spiegato meglio qui, e ne trovate ampia traccia sul nostro profilo Instagram).
Come abbiamo raccontato tante volte, l’idea è nata anche grazie a un gruppo di lettura tra amiche che abbiamo fondato durante la prima ondata della pandemia: all’inizio eravamo in quattro, e ci siamo concentrare sulla lettura della tetralogia di Elena Ferrante; poi siamo diventate sette, e leggiamo un po’ di tutto - circa un libro al mese -, votando molto democraticamente da un foglio di lavoro Google in cui ognuna è libera di fare proposte e le altre di esprimere le proprie preferenze. Per coordinare gli incontri e tenerci al passo con la lettura (ma anche per fare gossip e chiacchiere tra amiche) usiamo un gruppo Whatsapp. Il nome, ovviamente, inneggia all’essere un ommemmerd’ di Nino Sarratore (da cui l’immagine un po’ fuorviante, ma sempre valida, che abbiamo scelto per corredare questa newsletter).
Il punto è che presto ci siamo rese conto che i nostri gusti e le nostre proposte erano sempre orientate a un tipo di letteratura molto stereotipato, soprattutto per provenienza geografica e linguistica: perlopiù libri italiani, americani e anglosassoni, o al massimo di certi Paesi europei (per esempio la Francia) e di qualche Paese asiatico (quasi esclusivamente il Giappone).
In questi mesi abbiamo cercato di forzare e invertire questi stereotipi di lettura, ma ora vogliamo capire da dove provengano, quindi nella newsletter di oggi analizziamo il mercato editoriale italiano e la sua importazione di opere straniere con un esperto del settore: Francesco Guglieri, scrittore, saggista e editor della casa editrice Einaudi.
Una cosa bella di Internet di cui purtroppo non conosciamo la fonte
Scegliere, tradurre, vendere e leggere un libro che arriva da lontano
Ludovica Lugli intervista Francesco Guglieri
Partiamo dalle basi, per chi ha poca dimestichezza con le cose di addetti ai lavori dell’editoria. Come fanno le case editrici italiane a informarsi sui libri pubblicati all’estero, nel mondo intero, e scegliere quali far tradurre in italiano?
Questa è una domanda difficilissima a cui rispondere, non tanto perché è difficile in sé, ma perché è difficile dargli un ordine e una forma, in un tempo limitato e senza troppo annoiare chi ci legge. Il punto è che ci sono moltissimi modi in cui una casa editrice trova libri stranieri da pubblicare ed è proprio grazie a questa varietà che si possono trovare libri belli e interessanti: più i metodi sono vari, maggiore è la probabilità di trovarli. Senz’altro la cosa più importante è intessere con editori stranieri e agenti internazionali una rete di relazioni e di rapporti di modo che quando loro hanno dei libri, dei romanzi interessanti te li possano proporre. Un altro metodo sono gli scout, figure intermedie, che come gli scout nell’esercito battono un territorio straniero in cerca di materiale interessante, di libri interessanti. Hanno rapporti molto stretti con gli editori e gli agenti dei vari paesi e in qualche modo fanno un po’ da filtro. Perché ovviamente il problema principale è crearsi dei filtri, se no si è sommersi, affogati, dalla massa di libri che si scrivono nel mondo. Un tempo le fiere, soprattutto quella di Francoforte e in misura leggermente minore quella di Londra, erano molto importanti – parlo di dieci, venti anni fa e prima ancora. Era l’occasione in cui incontrarsi e c’era la possibilità di una proposta vera di libri: li vedevi, li leggevi, a volte in una notte, per fare poi un’offerta la mattina dopo. Ovviamente con internet, le e-mail e la circolazione dei manoscritti in ogni momento dell’anno e a ogni ora del giorno l’importanza delle fiere è diminuita, benché, almeno prima del Covid, avessero comunque una loro rilevanza, quantomeno per stringere contatti, rinsaldare rapporti che spesso, se solo virtuali, rischiano di essere labili. Poi comunque ancora oggi nelle fiere c’è il cosiddetto “libro della fiera”, un manoscritto che diventa di colpo quello “caldo”, quello che tutti inseguono, che comprano e che quindi devi vedere, leggere, per valutare se fare un’offerta. Le fiere hanno poi un’importanza, ancora oggi, per i mercati e le lingue meno rappresentate, con cui è più difficile avere un rapporto continuativo, ad esempio perché legate a piccoli paesi, dato che in occasione delle fiere ci sono più possibilità per incontrarli e conoscerli. Quello che capita sempre meno è pubblicare un libro – cioè comprarlo, farlo tradurre e poi pubblicarlo – dopo che è già stato pubblicato nel paese d’origine. Ormai una leggenda che uno possa andare nella libreria di New York o di Tokyo e trovare un libro per poi proporlo a un editore italiano pensando che l’editore italiano non l’abbia già visto, magari anni prima, perché i libri ovviamente circolano presso gli editori e gli agenti molto prima che vengano pubblicati. Poi sono importanti anche gli altri editori stranieri, soprattutto quelli con cui tu, editore italiano, ti riconosci maggiormente, che fanno un tipo di libro simile al tuo, hanno una linea editoriale assimilabile alla tua. Questo permette di farsi una prima idea, di prendere un orientamento. E per alcune lingue e culture con cui c’è una frequentazione minore o meno diretta, altri editori stranieri possono fare da ponte. Ad esempio, ormai una ventina d’anni fa, la Francia traduceva molto dalle lingue orientali, il cinese e il giapponese: c’erano editori specializzati in quelle lingue che quindi facevano un’operazione di scouting per gli editori di altri paesi. Oggi non è più così, non abbiamo più bisogno di guardare certi editori francesi per vedere cosa succede in Giappone.
Non so se sia un’impressione corretta, ma mi sembra che quando si parla di narrativa, certi paesi siano molto più conosciuti di altri. Sicuramente in Italia arrivano molti romanzi americani, e in seconda battuta britannici, ma penso anche a quelli giapponesi, che anche nelle classifiche mi sembrano ben più frequenti di quelli tedeschi, olandesi o di altri paesi europei, e, in misura minore, a quelli di alcuni paesi sudamericani, come il Cile. Succede perché certi paesi sono più portati per la narrativa di altri o perché anche nell’editoria – come all’Eurovision – ci sono legami internazionali tra alcuni paesi?
È un’impressione corretta, che si può spiegare in molti modi, dal più universale ad altri più pratici. Del resto sappiamo molto di più di certi paesi e molto meno di altri, anche in ambiti ben lontani dalla letteratura e dalla narrativa, a cominciare dalla politica. C’è ovviamente una questione di organizzazione industriale dei vari mercati: ci sono paesi e contesti linguistici che hanno una maggiore dimestichezza nel diffondere la propria produzione attraverso una rete ben organizzata di agenti ed editori che vendono all’estero e hanno rapporti con tutto il mondo. Questo è molto evidente per la lingua inglese, soprattutto per gli Stati Uniti: l’editoria americana ha una capacità organizzativa che altre non hanno. L’editoria americana inoltre ha una capacità legittimante, di canonizzare certe opere, certi movimenti, tendenze o mode: una capacità di imporli e di proporli molto maggiore. Non è un segreto che Roberto Bolaño sia diventato Bolaño, cioè un fenomeno letterario studiato anche nelle università, nel momento in cui l’agente letterario Andrew Wylie lo prese e lo rese tale. Questo vuol dire che se non ci fosse stato Wylie Bolaño non avrebbe avuto la diffusione che ha avuto? O che vuol dire che Bolaño non vale niente ed è solo il potere di Wylie ad averlo imposto? Ovviamente no, questo non dice niente della qualità letteraria di Bolaño o di altri autori che probabilmente avrebbero trovato la stessa strada. Pensiamo anche a fenomeni recenti come Karl Ove Knausgård o Elena Ferrante: senz’altro di successo nei loro paesi, molto letti e rispettati, ma se non avessero avuto una sorta di lavaggio dei panni in Hudson, nella scena letteraria newyorkese, se non fossero diventati all’improvviso, per vie diverse e per motivi diversi, importanti… Da lì poi hanno avuto un rilancio nel resto del mondo. La stessa Ferrante è tornata in Italia quasi di rimbalzo: l’esplosione che ha avuto in Italia ha senz’altro beneficiato della “Ferrante fever” avvenuta in America. Poi però in realtà la questione è molto più complessa e stratificata perché – se veniamo a contesti molto più vicini a noi – non possiamo non vedere che arrivano in Italia molte più opere dalla lingua spagnola che dal francese, e infinitamente di più che dal tedesco o dal russo, cioè da due tradizioni letterarie enormi. Perché? La Francia è un caso interessante. Vicinissima a noi, molto simile per certi versi a noi… Gli editori italiani vedono la produzione francese, la leggono, la considerano e la valutano quasi nella sua totalità, molto spesso anche di prima mano perché il francese è una lingua molto conosciuta: eppure quanti romanzi davvero interessanti arrivano dalla Francia in Italia? Ci sono anche tanti casi particolari che a volte intervengono a decretare un maggiore o minore interesse verso una cultura o un’area linguistica. È indubbio ad esempio che la narrativa italiana abbia beneficiando dell’interesse internazionale per Elena Ferrante e stia godendo di un’attenzione maggiore e di traduzioni più numerose rispetto al passato. Ma forse è anche cambiata la narrativa italiana: è diventata più esportabile, più interessante, più potabile per un lettore straniero. Pensa a quello che è stato il crime per la letteratura scandinava, quanto sia diventato un cavallo di Troia anche per una produzione letteraria molto lontana dal crime. Poi se vuoi ci sono considerazioni più critico-letterarie o culturali che ognuno può fare autonomamente. È vero che certi paesi hanno goduto o godono di una certa potenza, se non egemonia culturale, come gli Stati Uniti: però allo stesso tempo hanno anche dimostrato una vitalità letteraria, una sperimentazione delle forme, una varietà nelle voci, dovuta anche alla diversità sociale che hanno, che è più interessante magari di paesi più piccoli e anche più compatti dal punto di vista culturale. D’altro canto qualcuno potrebbe dirti, e forse non a torto, che la narrativa americana ha perso un po’ della sua energia: guardando più da vicino scopri che quell’energia l’ha spostata su altre voci, voci a cui magari noi lettori europei e italiani facciamo fatica a interessarci. E questo è un altro tema grosso. È vero che in Italia, almeno da un paio di decenni, si traduce molto, forse anche più di altri paesi europei simili a noi, più della Francia senz’altro, ma similmente alla Germania. Quello che sta cambiando oggi è che proporre narrativa letteraria in traduzione è molto più difficile: è molto meno letta, c’è molto meno disponibilità a farsene interessare. C’è un maggiore interesse invece per gli scrittori italiani: in questo l’Italia sta diventando un po’ più come la Francia, cioè un paese in cui quello che è importante è la produzione interna, mentre quella straniera è minoritaria. Sta succedendo anche in Italia, che sia un bene o un male, segno di maturità o di provincialismo e chiusura, di desiderio di storie più locali, lo giudicherà ogni lettore.
Ci sono anche “mode” tra i lettori?
Penso spesso che ci sono anche tendenze generazionali o più genericamente culturali. Per dire, per la generazione precedente alla mia, quella di chi adesso ha 50-60 anni, l’India era un contesto, un orizzonte culturale di proiezione di tante cose molto importanti e c’è stato un momento di pubblicazione di autori indiani o del Subcontinente molto forte. Continua ancora adesso perché è ovviamente uno dei contesti culturali più importanti e ribollenti al mondo, però mi accorgo che per la mia generazione, e ancora di più per i più giovani, l’India ha meno forza, anche immaginativa. Mentre c’è l’ha il Giappone, interessa di più, e questo ha delle conseguenze anche sulla traduzione.
In tutto ciò che ruolo ha la “difficoltà” delle lingue di partenza? Mi spiego: ogni tanto tra lettori forti che parlano di libri sui social viene criticata la scelta di far tradurre romanzi, per dire, giapponesi, coreani o anche islandesi, cioè scritti nella versione originale in lingue conosciute da pochi, non dalla versione originale ma dalla traduzione inglese. Il fatto che certe lingue siano meno note fa sì che sia più difficile che ci arrivino romanzi, che ne so, thailandesi o ungheresi?
Usare una lingua terza come traduzione è una cosa che si faceva, a giudicare dai cataloghi, molto di più in passato. Oggi almeno gli editori seri non lo fanno più: non ha senso tradurre da una lingua terza, di passaggio, perché la traduzione non è un telefono senza fili e non c’è più questa difficoltà a trovare traduttori in qualsiasi lingua. Siamo molto più a contatto con lingue e culture diverse e i traduttori hanno molta più facilità a reperire le informazioni necessarie a tradurre un libro. Usare una lingua terza, spesso l’inglese o il francese, è un crimine contro la traduzione che non dovrebbe essere più commesso. Riguardo invece al fatto che certe lingue siano meno conosciute e per questo ci arrivino meno libri scritti in quelle lingue, dipende: non dalla difficoltà della lingua, ma perché sono coinvolti contesti o mercati editoriali meno ramificati, con meno contatti col mondo. O ancora una produzione meno interessante, al di là della volontà di “coprire” tutto il globo. La speranza, in cui io credo abbastanza, è che le opere meritevoli arrivino comunque sui tavoli degli editori, o attraverso gli scout, o attraverso consulenti o agenti di passaggio. Può capitare che grossi agenti internazionali abbiano tra i loro clienti anche scrittori di lingue e paesi “minori”. L’Italia non è un paese “minore”, ma per tornare a Wylie, la sua agenzia ha nel suo catalogo anche autori italiani. Oltre che francesi, ungheresi e così via.
E invece che ruolo hanno gli istituti di cultura? Spesso leggendo saggi o anche romanzi scritti in paesi diversi dagli Stati Uniti, dal Regno Unito o dalla Francia capita di trovare, nella pagina in cui è indicato a chi appartengono i diritti d’autore, un’indicazione del fatto che la traduzione è stata in parte finanziata da un istituto culturale del paese di provenienza del libro. È una pratica che c’è sempre stata? Quanto è importante per far arrivare certi libri?
Gli istituti culturali o i fondi pubblici per finanziare le traduzioni hanno un ruolo importante nella diffusione, o nel far conoscere anche nelle fiere o in altre occasioni, la produzione letteraria in una determinata lingua. Poi dipende anche molto dall’editore: per grossi editori questi finanziamenti non sono così decisivi, mentre per un piccolo editore possono essere molto utili. Per editori con meno scrupoli diventano un modo per tirare avanti la baracca e si traduce a prescindere dal valore del testo, solo per avere i finanziamenti.
Passando a chi i libri li legge, qualche giorno fa sono incappata in un progetto di crowdfunding per una nuova rivista, la European Review of Books, che si propone di essere una rivista letteraria europea, scritta in inglese E nelle lingue dei suoi attori, diverse di volta in volta. Mi ha fatto pensare per l’ennesima volta che sappiamo molte più cose sulla cultura americana che su quella dei paesi a noi vicini, cosa che trovo sempre un po’ frustrante, ma anche che, non sapendo il tedesco, se dovessi leggere un romanzo tedesco contemporaneo forse farei un po’ fatica a capire come viene considerato in Germania. Ricordo che qualche anno fa, se non sbaglio, si diceva che in qualche paese europeo Fabio Volo veniva considerato un autore letterario, anche per merito di una traduzione che gli aveva dato un qualcosa in più. In generale, ci sono dei modi per leggere o comunque venire in contatto con la critica letteraria straniera che non sia leggere il New York Times?
Chi controlla però i controllori? Diciamo che questa domanda apre una vasta questione sulla formazione dei giudizi e dei canoni. Mi fa pensare a quanto in realtà, anche in Italia, si faccia fatica, anche in sede accademica, a considerare i romanzi in traduzione parte del canone su cui si forma uno scrittore italiano. C’è un gruppo di ricerca dell’Università di Pescara che fa capo a Michele Sisto e fa proprio questo: rileggere la storia letteraria italiana alla luce di un canone molto più ampio. Detto un po’ banalmente, che gli autori e i libri che hanno influenzato uno scrittore non sono solo quelli legati alla sua lingua, non sono solo gli autori italiani, ma sono tutti quelli che ha letto, anche in traduzione. Basti pensare agli scrittori di oggi, su cui pesa molto di più Underworld di Don DeLillo o Le benevole di Jonathan Littell che i romanzi di Oreste Del Buono, per dire.
Lo scrittore Tim Parks, che è inglese ma vive in Italia da molti anni e ha tradotto molti romanzi italiani in inglese, ha più volte criticato quella che secondo lui è una tendenza all’uniformità nella narrativa internazionale: scrittrici e scrittori di tutto il mondo penserebbero già, quando scrivono un romanzo, alla possibilità che venga tradotto in inglese e quindi adattano temi e stile ai lettori anglosassoni. Il mercato della letteratura anglosassone è il più grande del mondo, quindi avere successo negli Stati Uniti per un autore di libri è molto importante ma, secondo Parks, questo va a scapito della qualità letteraria di ciò che si scrive, fa perdere le differenze culturali e fa sì che gli scrittori “esoticizzino” i loro stessi paesi. Pensi che la tendenza di cui parla Parks esista davvero? Se sì, la vedi in modo negativo oppure come fenomeno neutro, legato al fatto che abbiamo una cultura sempre più globale?
Onestamente no, non ci credo moltissimo. Non credo che nessuno scrittore italiano scriva, modifichi la sua scrittura per venire incontro a un gusto internazionale. Non credo neanche che gli editori siano più interessati a libri uniformi o uniformati. Il problema dell’intraducibilità c’è molto meno anche perché i traduttori sono molto bravi e hanno molti più strumenti rispetto al passato per superare queste impasse. Detto questo è vero che un libro per essere interessante deve parlarci in qualche modo, deve avere un qualcosa, una forza, una bellezza, un interesse che vada al di là del contesto in cui è nato, ma questo vale sia che tu lo legga in originale che in traduzione.
Segnaliamo ai lettori della newsletter un tuo vecchio articolo su questo argomento, tuttora attuale, per approfondimenti. Prima di salutarci, hai qualche libro da consigliarci per i prossimi sei mesi di challenge? Di autrici o autori africani sono molto benvenuti in particolare – per chi non sta seguendo la challenge: siamo state un po’ carenti su quest’area geografica finora.
Consiglierei, anche se non è una donna, Teju Cole, uno scrittore nigeriano. Il suo primo libro, ma secondo pubblicato in Italia, Ogni giorno è per il ladro: è ambientato in Nigeria e ha lo stesso sguardo e punto di vista che svilupperà poi al massimo grado in Città aperta, un capolavoro secondo me. In questo caso però è tutto ambientato a Lagos, e non a New York, e fa vedere la grandezza geografica e culturale di quella città.
Francesco Guglieri è scrittore e saggista, collabora o ha collaborato con Domani, Robinson e il Venerdì di Repubblica, Rivista Studio, IL, Undici, Prismo, L'Indice dei libri del mese. Lavora come editor presso la casa editrice Einaudi ed è autore di Leggere la terra e il cielo. Letteratura scientifica per non scienziati (Laterza, 2020).
Ludovica Lugli è nata a Modena nel 1991 ed è una redattrice del Post. Le piace molto leggere. Su Twitter la trovate come @Ludviclug, su Instagram come @ludoviji.
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