«Ciò che è più strano del fatto di trovarmi qui, a Parigi, da sola, nella sala di un museo etnografico, praticamente sotto la Torre Eiffel, è il pensiero che tutte quelle statuette che mi assomigliano siano state sottratte al patrimonio culturale del mio paese da un uomo di cui porto il cognome.»
Questo è l’incipit di Sanguemisto della scrittrice peruviana Gabriela Wiener, pubblicato in Italia da La nuova frontiera nel 2022 nella traduzione di Elisa Tramontin. Nel romanzo Wiener ricostruisce la storia romanzesca del trisavolo di cui porta il cognome: avventuriero e huaquero, a fine Ottocento saccheggiò il Perù portando in Europa quasi quattromila reperti. Non si tratta di un libro di storia, né di una biografia, piuttosto di un romanzo autobiografico atipico, perché le vicende del trisavolo diventano per Wiener l’occasione per ricostruire la propria storia e quella della sua famiglia, e al contempo decostruire la propria identità, rielaborando abbandoni, gelosie, sensi di colpa, razzismo subito e interiorizzato.
Sanguemisto è il libro che stiamo leggendo per il nostro bookclub, di cui parleremo alla libreria Verso di Milano il prossimo 7 giugno (qui c’è il canale Telegram dedicato al gruppo di lettura dove scoprire come partecipare e ricevere tutti gli aggiornamenti).
L’abbiamo scelto perché quella di Wiener è considerata una delle voci più interessanti del giornalismo narrativo contemporaneo e proviene da uno dei continenti in cui il pensiero femminista si è aperto a prospettive intersezionali e decoloniali con maggiore forza (nonostante Wiener viva da molti anni in Europa): l’America centrale e del Sud.
Nella newsletter di oggi abbiamo chiesto a Silvia Pelizzari, che cura la newsletter Autostrada del Sud proprio dedicata alla letteratura sudamericana, di consigliarci altre voci che negli ultimi anni hanno contribuito o stanno contribuendo all’ampliamento di questo orizzonti.
La scrittrice Gloria Anzaldúa in una foto di Alison Hawthorne Deming
Quattro autrici centro e sudamericane, femministe decoloniali
di Silvia Pelizzari
Il 6 gennaio 2011, nel quartiere Cuauhtémoc di Ciudad Juárez, città messicana al confine con il Nuovo Messico, viene trovato il corpo della trentasettenne Susana Chávez. Studiava psicologia, era poeta e attivista. Leggeva le sue poesie a reading e a eventi in giro per la città, riportando al centro della sua arte il corpo delle donne, il loro diritto alla vita, rivendicando giustizia per tutte le donne e per i corpi femminilizzati.
Ciudad Juárez era al centro di una serie di delitti che dal 1993 al 2012 avevano coinvolto più di 700 donne. Quasi tutte lavoravano nelle maquiladoras, fabbriche controllate dagli Stati Uniti in cui venivano assemblati prodotti destinati a un mercato straniero. La nascita delle maquiladoras, in una città di confine che diventava di fatto libera da qualsiasi forma di imposta doganale, aveva comportato l’arrivo a Ciudad Juárez di moltissime donne, soprattutto da zone rurali.
I femminicidi riguardavano donne molto giovani, di estrazione popolare, studentesse o lavoratrici che avevano iniziato a lavorare presto per motivi economici, diventate velocemente manodopera a basso costo e sfruttate. Le donne venivano violentate, mutilate, assassinate e abbandonate nei campi o in mezzo alla strada (chi ha letto il quarto libro di 2666 di Roberto Bolano saprà sicuramente di cosa sto parlando). Chávez, prima di diventare una delle vittime, provò a combattere e a cambiare le cose attraverso la protesta e la manifestazione e attraverso la parola e la scrittura, che, come ha scritto Negrisoli in un articolo su Il Domani, per Susana “non era soltanto teoria, era prassi sovversiva, attivismo politico contro la dilagante violenza di genere”. A Chávez dobbiamo poesie e testi (in Italia pubblicate da Gwynplaine, casa editrice chiusa nel 2021, nel libro Primera tormenta) e dobbiamo lo slogan Ni una menos, dal suo verso “Ni una mujer menos, ni una muerta más”.
Parto da qui per segnalare e consigliare alcuni autrici centro e sudamericane che nelle loro opere hanno tracciato un percorso femminista e decoloniale.
VERÓNICA GAGO
Il movimento Ni una menos è nato in Argentina nella primavera del 2015. Prende il verso di Susana Chávez e lo trasforma in uno slogan collettivo che in breve tempo si è sparso nei vicini paesi sudamericani e oltreoceano. La miccia del movimento è l’ennesimo femminicidio, quello di Chiara Páez, una ragazzina di quattordici anni uccisa dal fidanzato a Rufino, cittadina della provincia di Santa Fe, perché incinta. La manifestazione si svolge nel giugno 2015, ma anche l’anno successivo e quello dopo ancora, modellandosi e trasformandosi in relazione al contesto economico, sociale.
Lo racconta molto bene Verónica Gago nel suo libro La potenza femminista - O il desiderio di cambiare tutto (Capovolte edizioni, 2022. Traduzione di Stefania Stefani) che in questo testo analizza i movimenti radicali e le teorie femministe e marxiste legandole al presente, alle lotte antipatriarcali che dal sud del mondo sono arrivate ovunque, proprio attraverso il movimento da lei fondato. La precarizzazione del lavoro, la riduzione dei benefici sociali e la disparità di genere frutto delle politiche economiche e sociali di Mauricio Macri, Presidente argentino dal 2015 al 2019, ha portato il movimento a organizzarsi, per il 19 ottobre 2016, nel primo sciopero di un’ora, con lo slogan Si mi vida no vale, produzcan sin mi. Il 2017 è l’anno in cui lo strumento dello sciopero si realizza pienamente. L’8 marzo viene organizzato lo sciopero internazionale contro la violenza di genere in tutte le sue forme. Ne La potenza femminista, Gago costruisce un’analisi situata nella lotta. Per lei ogni pensiero situato è un pensiero femminista perché “la potenza del pensiero ha sempre un corpo”. Lo sciopero diventa quindi una lente, “un punto di vista specifico per affrontare alcune delle problematiche sollevate dal movimento femminista”; lente che ha sia un’accezione analitica, sia una pratica. “I femminismi, attraverso lo sciopero, contestano i confini della definizione del lavoro e, di conseguenza, di classe lavoratrice, aprendo questi concetti a nuove esperienze ed evidenziandone il significato storico escludente. Lo sciopero amplia le stesse esperienze femministe, diffondendole in spazi, generazioni e corpi che non si riconoscevano nelle pratiche femministe precedenti. Inoltre, esso ci permette di immaginare che c’è molto più del “patriarcato del salario” e la sua eteronormatività".
CRISTINA RIVERA GARZA
Il 16 luglio 1990, a Città del Messico, una ragazza di vent’anni, studentessa di architettura, viene uccisa dal fidanzato che aveva deciso di lasciare e che da allora è in fuga. La ragazza si chiamava Liliana Rivera Garza e poche settimane prima della tragedia aveva imparato che in lei c’era “un’invincibile estate”, una spinta alla vita che avrebbe vinto su ogni altra cosa. Trent’anni dopo, sua sorella, la scrittrice e accademica messicana Cristina Rivera Garza, decide di raccontare in un romanzo (L’invincibile estate di Liliana, appena uscito in Italia per Sur nella traduzione di Giulia Zavagna) il tentativo di ricostruire la storia della sorella, una storia di violenza di cui nel momento dell’accaduto, nessuno aveva parlato. L’autrice si muove nelle strade di Città del Messico alla ricerca dell’introvabile fascicolo di indagine e nel farlo mescola memoria, rabbia, senso di colpa, tenerezza, politica e attivismo, in un memoir che vuole rendere la sorella presente, proprio a partire dalla sua assenza. L’autrice ha dichiarato di aver impiegato molti anni per la stesura di questo libro-testimonianza, non solo perché l’elaborazione del lutto ha preteso molto tempo, ma anche perché Cristina Rivera Garza ha dovuto cercare - e trovare - un linguaggio che potesse raccontare la violenza, la perdita, il dolore. E in assenza di un fascicolo che non si trova, Cristina crea un archivio personale, un “archivio degli affetti” fatto di oggetti, racconti, ritagli di giornale, memoria. L’esperienza privata, il femminicidio di una donna, diventa esperienza universale e collettiva per chi resta e per chi non si arrende, perché - per dirlo con le parole dell’autrice - “Siamo loro nel passato, e siamo loro nel futuro, e al tempo stesso siamo altre. Siamo altre e siamo le stesse di sempre. Donne in cerca di giustizia. Donne esauste, ma unite. Ormai stufe, ma con una pazienza secolare. Ormai per sempre furiose.”
DJAMILA RIBEIRO
Djamila Ribeiro è una filosofa e saggista brasiliana cresciuta in una famiglia proletaria, diventata famosa per il suo attivismo attraverso la rete e nominata, nel 2016 durante l’amministrazione di Fernando Haddad, sottosegretaria per i diritti umani e la cittadinanza. Unica bambina nera nella scuola che frequentava, è diventata il punto di riferimento per il femminismo nero brasiliano. In Italia è pubblicata da Capovolte edizioni, casa editrice di Alessandria che sta facendo un eccellente lavoro di recupero e traduzione di opere femministe intersezionali che si discostano dal femminismo “eurocentrico” o prettamente anglosassone. Ne Il luogo della parola (traduzione di Monica Paes) Ribeiro racconta il pensiero di figure storiche del femminismo e riflette sul proprio doppio ruolo marginale di donna e donna nera e sulla necessità di un femminismo che attraversi razza, genere e classe. In questo contesto Il luogo della parola è necessario per riconoscere e valorizzare la propria esperienza individuale, quella cioè di soggetto minorizzato e razzializzato. Ne Piccolo manuale antirazzista e femminista (traduzione di Francesca de Rosa) Ribeiro articola dieci piccole lezioni per distruggere il razzismo interiorizzato in un percorso critico che mira a fornire strumenti per individuare, riconoscere e smantellare una dimensione strutturale che esiste e ci circonda anche quando pensiamo non sia così, offrendoci in appendice un elenco di autori e autrici femministe e nere da leggere e approfondire.
GLORIA ANZALDÚA
Gloria Anzaldúa è stata una poetessa e scrittrice chicana, femminista e attivista per i diritti dei migranti. È nata nel sud del Texas, nella Valle del Rio Grande, una terra di confine con il Messico, ed è cresciuta tra la cultura messicana e quella angloamericana. Si definiva una donna di frontiera e il suo testo più famoso si intitola proprio Terre di confine - La frontera, riportato in Italia da Black Coffee edizioni nella nuova traduzione di Paola Zaccaria. Un testo che mescola lingue - quella spagnola e quella inglese, ma anche quella indigena - ma gioca anche sull’ibridazione dei generi, unendo poesia e saggistica, manifesto politico e autobiografia. Al centro dell’opera c’è il concetto di confine, declinato in una visione di affermazione e libertà. Anzaldúa si definiva chicana, texana, queer, e la sua era ed è una visione femminista e decoloniale attraverso cui guarda il confine tra Stati Uniti e Messico, l’intersecarsi di culture e lingue e attraverso il quale è in grado di spaccare il confine, nel tentativo di curare la ferita coloniale. “Vivere nelle Terre di confine significa che non sei né hispana india negra española ni gabacha, eres mestiza, mulata, mezzosangue presa nel fuoco incrociato tra gli accampamenti mentre trasporti tutte e cinque le razze sulla spalle non sapendo da che lato girarti, da quale fuggire”.
Silvia Pelizzari è laureata in editoria e giornalismo e vive a Milano. È ideatrice e autrice di Tiresia, un podcast sulla letteratura queer targato Emons Record uscito nel 2022; ha scritto su Pagina99, Minima et Moralia, L'indiscreto, Kobo e Huffpost; ha co-diretto Finzioni Magazine e pubblicato racconti per riviste online e antologie. Parla di libri nella sua newsletter Autostrada del Sud e di sostenibilità su Valori.it. Il suo ambito di studio e ricerca personale è la letteratura centro e sudamericana. Su Instagram e Twitter è @silviacardinale.
Cose belle che abbiamo letto in giro
Il fotografo Mirko Viglino, padre separato, racconta il rapporto con la figlia attraverso un viaggio nello spazio immaginario.
Ve ne sarete accorti: è iniziato il festival di Cannes. Le registe in concorso sono sette, il 33%. E si tratta di una prima volta.
La didattica digitale aiuta le piccole scuole a superare l’isolamento.
È uscito il nuovo podcast di Sara Poma. Figlie parla di Argentina e desaparecidos, ma non solo.
Una delle serie di cui più si chiacchiera nelle ultime settimane è The Diplomat, su Netflix. Ma quanto è realistica?
Perché al Parlamento Europeo la destra italiana si è astenuta sulla Convenzione di Istanbul.
È tempo anche di Salone del libro a Torino: tra le autrici che siamo curiose di incontrare e conoscere c’è Torrey Peters con il suo Detransition, Baby.
E sempre in tema libresco, ecco alcuni titoli che abbiamo ricevuto negli ultimi giorni e che vi segnaliamo perché ci sembrano interessanti: Calypso. La bambina wi-fi, primo libro di Francesco Morgando; Indietro non si torna. Il lungo cammino dei diritti civili delle persone LGBT+ in Italia, di Monica J. Romano; e Spazzolare il gatto di Jane Campbell.
Negli scorsi giorni è stata svelata l’identità della scrittrice Erin Doom.
Il nostro podcast Non è Senza Rossetto, progetto speciale che abbiamo realizzato per Audible l’anno scorso, è tra i finalisti a Il Pod, premio per i migliori podcast italiani, nella categoria Diversity. La cerimonia di premiazione sarà l’11 giugno al Teatro Carcano e potete votarci per il premio del pubblico qui.
A presto,
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