- «Ciao, sono Giulia C., ho 29 anni e sono dipendente dalle liste»
- «Ciao Giulia»
Da che mi ricordi - probabilmente da che ho avuto bisogno di organizzare il mio tempo - io spendo un sacco di ore facendo liste di cose da fare. Al momento segno i miei impegni su un calendario, su Google Calendar, su un’agenda cartacea e su una nota del telefono che titola “Le cose che devo fare”. In ufficio ho ben due calendari cartacei, un’altra agenda, un’altro Google Calendar e, ovviamente, i post-it. La cosa più divertente della mia dipendenza da to do list (oltre all’evidente spreco di tempo per farle, spuntarle, modificarle, spuntarle di nuovo, rifarle da capo) è che compilarle non mi dà alcuna soddisfazione, anzi la maggior parte delle volte vengo sopraffatta dalla frustrazione di non vederle esaurirsi mai, in un susseguirsi di impegni e incombenze che aumentano invece che diminuire. Questa costante attenzione per le cose da fare mi fa sentire perennemente impegnata, anche quando sto cancellando dalla mia lista un compito eseguito, perché nel frattempo sto guardando tutti quelli a venire che sono lì, belli snocciolati davanti ai miei occhi. La gestione del mio tempo mi mette un tale carico d’ansia che non oso immaginare il giorno in cui avrò dei figli (se ne avrò) e dovrò iniziare a pensare anche ai loro bisogni, i loro impegni, i loro doveri e i loro desideri.
Sono sicura che questa fatica del pensare sempre a tutto non riguarda solo me, ma molti di voi, specialmente se siete donne, mogli e madri. Ebbene, sappiate che questa fatica esiste, è reale e ha anche un nome specifico in sociologia: si chiama charge mentale e se la provate non siete pazze, probabilmente avete solo a fianco un Marito-Vittima-Carnefice da educare, come ci racconta nella newsletter di oggi la giornalista Greta Privitera.
Illustrazione di Daria Tommasi per Senza rossetto
«Cara, come posso aiutarti?»
di Greta Privitera
L’ultima è stata: «Ti do una mano, svuoto la lavastoviglie». Ti-do-una-mano. Senza bisogno di scomodare l’analisi logica, ecco il significato: «Sarebbe compito tuo, ma visto che ho tempo ti aiuto». Era mattina presto, le tazze della colazione ancora salde sul tavolo al centro dei loro laghetti di latte rovesciato, e le bambine che le fissavano addormentate. Mi è partita una raffica di parole intermezzate da insulti che spiegavano al Marito-Vittima-Carnefice* (che da questo momento chiameremo MVC) quanto quella frase semplice fosse portatrice malata di un retaggio culturale: «Tu, donna, regina del focolare, gestisci la casa. Io, che lavoro, quando posso, ti vengo incontro». La figlia più grande: «Povero papà, ti voleva solo aiutare».
E no, porca miseria, non ci siamo. Certo, MVC lo ha detto pensando di fare cosa gradita, ma trattasi di adulto trentacinquenne che si definisce «femminista», e che dovrebbe sapere che nel 2019 la gestione della casa è affare condiviso al 50%. Quindi, figlia mia, papà avrebbe dovuto dire «Svuoto la lavastoviglie». O, ancora meglio, avrebbe dovuto solo farlo, senza aggiungere parole. Perché non è che quando raccolgo i calzini disseminati per terra urlo in corridoio «amore, per caso devo raccogliere i calzini disseminati per terra?». O quando cucino elenco «ho messo su l’acqua, la sto salando, che faccio, li butto o no i maccheroni?». O quando chiamo la scuola gli mando un messaggio. Faccio, punto.
Ho 35 anni, un lavoro da giornalista, due figlie e un MVC americano. Da anni mi batto con tutta me stessa contro un’ingiustizia antichissima, la charge mentale, il carico mentale, che mi affatica, mi indispone e rende le mie giornate molto più pesanti di quello che potrebbero essere. La sociologa Monique Haicault, nel 1984, l’ha spiegata così: «Il cervello delle donne è costantemente stimolato, assediato, dalla responsabilità della pianificazione, gestione e organizzazione della vita familiare e questo carico mentale casalingo travalica la sfera domestica per invadere anche quella lavorativa». Per capirci, la charge mentale non è tanto il peso di fare tutto, ma è la fatica di pensare a tutto.
Ogni giorno, al mio lavoro se ne aggiunge un altro invisibile, comunque full time, che è quello di mandare avanti la casa e chi la abita. La testa della maggioranza delle donne è bombardata da una sfilza di pensieri come: cosa mangiamo stasera? - abbiamo pagato la mensa della scuola? - a proposito, c’è l’elezione del rappresentante - dove andiamo in vacanza? - la lettiera del gatto è finita - XY ha i pidocchi, devo scriverlo sul gruppo whatsapp della classe - hai fatto gli esami del sangue? - e così via. Un continuo stream of consciousness noiosissimo di cose da fare e gestire che ci logora, ci sderena (passatemi il termine) e ci toglie energie. L’esempio del Ceo di un’azienda è perfetto. È come se tutte noi fossimo a capo di un’impresa e l’MVC di turno fosse un nostro dipendente (quando va bene), e quindi sì, col suo lavoro ci aiuta, ma la responsabilità che le cose funzionino è solo nostra. Questo compito non retribuito rosicchia il nostro tempo e in alcuni casi influenza negativamente le nostre carriere, andando ad alimentare quel gender gap che nella vita fuori si riassume in questi numeri: in Italia, solo il 24% dei manager in posizioni di vertice è donna.
Io rientro nella categoria che mia madre e le sue sette sorelle, nate tutte tra gli anni ’40 e ’50, titolano «La moglie fortunata», perché MVC è un ottimo esecutore. «Ma va come l’è bravo, è lui che piega i vestiti?», dice zia Jole quando passa da casa e lo vede all’opera. Lei - donna di 79 anni, imprenditrice, che nella vita ha sempre servito l’adorato marito - coi sui commenti, involontariamente, aggiunge un sasso al mio pesantissimo zaino firmato charge mentale, mentre MVC gongola, perché qualcuno riconosce il suo lavoro domestico, come fosse qualcosa di straordinario che lo rende «un marito speciale». MVC, in effetti, fa quasi tutto quello che gli chiedo. Fa, giusto, ma si assume pochissime responsabilità di quelle azioni. Un esempio: di solito, la mattina lui veste la figlia più piccola, io la più grande. MVC: «Dove sono le magliette?»; «Le lavo le manine?»; «Ah, non sapevo ci fosse la riunione di classe». Riempire con insulti a piacimento: ___________________________.
La maggior parte degli MVC che conosco, sono uomini disponibili attivi nella vita familiare, ma che, proprio come il mio, senza rendersene conto, si portano ancora dietro l’ombra dello stereotipo che la famiglia è affare femminile. Molti di loro negano questo meccanismo perché, in fondo, «io sparecchio, oppure cucino, rifaccio il letto», qualcuno partecipa anche alle riunioni di classe (pochissimi, ci avete fatto caso?). Tutte cose che i loro padri non facevano, quindi «che passi avanti», dovremmo dire. Certo, ma non basta. L’altro giorno una mia cara amica mi ha mandato la prova della sua charge mentale: nel lavandino c’era un vasetto di yogurt finito, accanto al letto i vestiti del giorno prima lasciati a terra, la multa non pagata sul tavolo. «L’altro figlio mi sfinisce», ha scritto sotto le foto. «I nostri compagni continuano a rifiutarsi di prendere la loro parte di carico mentale», spiega la bravissima Emma, una fumettista francese che con le sue vignette ha fatto portato il concetto di carico femminile sui giornali, e questo danneggia tutta la società,.
Che nessuno osi dire «è nella vostra indole», «siamo fatte così», perché non posso credere che la mia indole preveda lavare e stirare. Amo lei mie figlie e MVC alla follia, ma mi piace leggere, uscire con le amiche e adoro il mio lavoro, per cui sono felice di prendermi cura della mia famiglia, ma esigo condividere oneri e onori con chi mi sta accanto.
Il mio non è un discorso militante, né tantomeno ideologico, voglio solo essere alleggerita, voglio che MVC prenda la metà delle pietre che ho nello zaino e le carichi nel suo. Voglio che le mie due bambine e le loro compagne di classe si abituino ad avere la stessa testa libera che hanno i loro amici maschi per progettare il futuro, per scrivere un libro, o anche solo per godersela. Quindi, amici cari, da oggi chiedete alle vostre mogli e compagne di essere inseriti nella chat di classe e sorbitevi anche voi i venti messaggi di Buona Pasqua fatti di coniglietti azzurri in versione GIF animate. Dite che vi occuperete completamente dello sport dei bambini (zaino e iscrizione compresi); che il gatto, la lettiera e i vaccini vari da oggi saranno affar vostro. Smettetela di chiederci «Come posso aiutarti?», fate. E noi, donne caricate, lasciamo che i nostri compagni facciano le cose a modo loro, senza intrometterci troppo. Se i nostri figli cresceranno in case dove l’intera gestione familiare è affare di entrambi genitori, non cascheranno nell’errore della divisione stereotipata dei ruoli, e finalmente le ragazze cammineranno per il mondo con zaini più leggeri.
*Marito Vittima Carnefice: uomo che si impegna ma che è ancora impigliato negli stereotipi di una volta. Quindi, è sì vittima inconsapevole di una cultura retrograda (e vittima delle mie sfuriate), ma e anche un po’ carnefice perché coi suoi comportamenti porta avanti lo stereotipo della donna «regina del focolare».
Greta Privitera è mamma di due figlie, moglie di un marito, medico mancato, giornalista, punk rocker. Ascolta le storie degli altri since 1983. La trovate su Instagram come @greta_privitera o @charge_mentale_girl
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