Ho avuto un inverno faticoso, io Giulia C. Ho avuto un bel po’ di stress emotivi, ho lavorato tanto, ho fatto pochissimo movimento, ho deciso di smettere di usare contraccettivi ormonali dopo molti anni che ne facevo uso, ho sopperito con qualche gin tonic di troppo e molto cibo d’asporto. Risultato: sono ingrassata quattro chili in quattro mesi.
Lo sospettavo (dato che non mi si chiudevano più i jeans), ma a casa non ho una bilancia e ho fatto finta di nulla fino a quando, il giorno di Pasqua a casa dei miei genitori, non ho deciso di pesarmi. Picchi mai toccati: panico, tragedia, sconforto, disperazione. Ho fatto il cambio stagione con il desiderio di buttare tutto e ricomprare tutto da zero, ma come mi sarei sentita nel dover acquistare abiti di una taglia in più? Molto peggio che accettare che quell’abitino comprato nel 2009 (dieci anni fa, dieci) non mi entra più dai fianchi.
Allora ho pensato di mettermi a dieta, di svegliarmi presto la mattina e andare a correre, di farmi tutti i giorni i sei piani di scale che mi separano dal mio appartamento a piedi, di usare la macchina solo ed esclusivamente per andare a lavoro (che altrimenti non ci arrivo davvero, lavoro lontano, lo giuro) per tutto il resto bicicletta.
Poi qualche tempo fa ho conosciuto Belle di faccia e sentendole parlare ho capito che era tutto sbagliato, e non perché “in fondo sono bella anche così” o “cosa saranno mai quattro chili in più”. Ma proprio perché anche se mi ripeto queste cose, io continuo a vedermi con dei chili di troppo che quest’estate non ho voglia di sfoggiare perché temo il giudizio degli altri.
Non è vero che per avere un corpo da spiaggia basta mettersi un bikini e andarci, in spiaggia. Magari. In molti casi, per reagire al senso di inadeguatezza che ci impone la prova costume un po’ di autostima e di self confidence non sono abbastanza. Oggi ve lo raccontano proprio Mara e Chiara.
Illustrazione di Chiaralascura per Senza rossetto
Un body shaming quattro stagioni
di Belle di faccia
C’è qualcosa di oscuro che incombe, lo senti nei primi salubri raggi di sole, nell’aria carica del profumo dei gelsomini in fiore, nelle ascelle e nel sottotetta sudato: arriva l’estate.
Se estate è per tutti – o quasi – sinonimo di mare, c’è una certezza ancora più solida e granitica che annuncia la bella stagione ed è la pubblicazione di articoli sulla prova costume, sulle miracolose diete a base di radici dal Sud Est Asiatico, creme che con un gioco di prestigio fanno sparire i FASTIDIOSI INESTETISMI della cellulite.
Per anni abbiamo vissuto tutto questo come fisiologico e normale, poi c’è stato un momento della nostra esistenza in cui abbiamo scoperto termini come diet culture, grassofobia e body shaming.
Andiamo al succo della questione: la diet culture è tutta intorno a noi, come Matrix. Letteralmente significa “cultura della dieta” e praticamente è quell’insieme di messaggi e slogan che ti dicono che il tuo valore dipende dal raggiungimento di una determinata forma fisica e che stabiliscono una gerarchia in cui i corpi grassi non solo non raggiungono il traguardo ma non si classificano proprio.
Le diete sono così radicate nella mentalità comune da dare l'impressione di esistere da secoli e secoli, in realtà l'industria delle diete ha iniziato a svilupparsi solo negli anni Vnti del Novecento e shakerata con un un bel po' di razzismo, misoginia e sessismo si è man mano evoluta nel Pokémon malefico che conosciamo ora e che tormenta l’esistenza di ogni essere umano con una preferenza per il genere femminile.
Oltre all’essere angeli del focolare, compagne modeste e discrete, madri premurose, la neonata cultura delle diete e della bellezza ha iniziato a chiedere alle donne di essere belle e per belle s’intendeva soprattutto MAGRE. Esili, delicate, eteree: il nuovo standard di bellezza non era altro che una nuova forma di controllo delle donne eseguita in maniera molto più subdola. Non ci è voluto molto poi perché questi concetti venissero interiorizzati e le donne iniziassero a desiderare corpi inarrivabili e divenissero disposte a tutto per raggiungerli. Gli standard di bellezza sono stati tramandati di generazione in generazione, fino ad arrivare a descrivere l'attuale modello stereotipato di femminilità, modello che ci regala privilegi se riusciamo ad avvicinarci il più possibile ad esso e ci carica di discriminazioni e giudizi man mano che ce ne allontaniamo..
Negli ultimi anni questi standard di bellezza restrittivi sono stati messi in forte discussione e il body shaming è diventato sempre meno accettabile per l'opinione pubblica, quindi la diet culture, quell’infame, si è fatta scaltra ed è andata in incognito.
Ora si fa chiamare “detox”, “purificazione”, “prenditi cura di te stessa” ma il sunto è sempre lo stesso: DIMAGRISCI! Dimagrisci a qualunque costo, investi un patrimonio in creme, pastiglie, unguenti, libri sulle diete, programmi dimagranti, palestre, guru delle diete, frullati, tisane, pasti sostitutivi, ma perdi quei maledetti di chili in più che non sta bene prendere tutto questo spazio nel mondo, che cos'è questa invadenza, smettila di allargarti!
Come mai la body positivity, ormai concetto mainstream e hashtag da 9 milioni di post, non ci ha ancora salvate da tutto questo? Perché un movimento che discende direttamente da fat acceptance e che dovrebbe quindi essere femminista, radicale e intersezionale e combattere per la dignità di tutti corpi non conformi ha fallito?
Ha fallito perché, complici i brand che se ne sono appropriati, ha solo allargato la gabbia dello standard di bellezza aggiungendo un paio di taglie e sbandierando una finta inclusività.
Ha fallito perché il femminismo bianco e borghese ha ritagliato gli slogan di cui aveva bisogno dal movimento prendendo tutto lo spazio e lasciando fuori i corpi più grassi, i corpi disabili, i corpi neri e di colore.
Ha fallito perché le influencer che pensano che l'empowerment sia una maglietta fast fashion con scritto girl power hanno capito il potenziale di un hashtag che parla di corpi e poteva attirare un numeroso pubblico, soprattutto femminile, stanco di non piacersi e delle continue ossessioni e preoccupazioni per il corpo.
In tutti e tre i casi sono passati sotto gamba la componente radicale, i discorsi sulla discriminazione e la grassofobia e sulle disparità sociali che creano, lo smantellamento della diet culture, ed è rimasto solo un blando ed edulcorato invito ad amarsi, ad accettarsi, al self love, alla body confidence, spostando tutta la responsabilità sul singolo e creando un nuovo impossibile ideale da raggiungere: se vivo male con il mio corpo, se non mi piaccio, se mi discriminano, se mi prendono in giro, se mi trattano da subumano, allora è colpa mia perché non mi amo abbastanza.
In più la body positivity mainstream, prima di solide basi radicali, è popolata da personaggi che ne beneficiano ma tracciano il confine tra chi può beneficiarne e chi non può, mettendo continuamente le mani avanti e dicendo "ok piacersi, ma la salute?" e "nessuno può discriminarmi perché ho qualche chilo in più e le smagliature, ma non esageriamo gli obesi no", perdendo completamente il punto della questione.
Forse il self love risolve qualcosa se sei una persona magra, normopeso o leggermente curvy che decide di smettere di ascoltare il grillo parlante dei media, ma non risolve i problemi delle persone grasse, che ora non sono solo rigettate dalla società ma anche da un movimento che è stato creato da loro e per loro e alle quali, nel migliore dei casi, viene detto di amarsi di più e fregarsene.
Secondo voi, al datore di lavoro che non ti assume perché in sovrappeso, gli si farà cambiare idea affermando con sicurezza “MA IO MI PIACCIO COSÌ!”, i cafoni che dalla macchina col finestrino abbassato che urlano “E MANGIATELA UNA COSA!” alla risposta “ MANGIO QUELLO CHE MI PARE E MI SENTO BELLA” vi manderanno delle scuse formali a casa? I troll smetteranno di trollare, le cinture di sicurezza di essere troppo strette, l'abbigliamento diventerà più inclusivo e meno costoso, i media smetteranno di trattarci come esempi negativi solo perché noi ci sentiamo flawless?
Si, è vero, come dice lo slogan, che per avere un corpo da spiaggia e superare la prova costume basta prendere un costume della tua taglia, indossarlo e andare in spiaggia, ma quando il body shaming stagionale sarà finito e quando gli altri potranno coprire rotolini, smagliature e pancetta con i vestiti, noi saremo sempre qui, visibilmente grasse, a subire un body shaming quattro stagioni che se ne andrà solo cambiando radicalmente quello che tutti noi pensiamo dei corpi.
Belle di faccia è un progetto nato su Instagram da pochissimo, a dicembre 2018. Siamo due amiche femministe - Mara Mibelli, 32 anni e Chiara Meloni, 38 - che hanno sempre vissuto in un corpo fuori dagli standard. L’idea è nata dalla constatazione del fatto che mentre all’estero i fat studies, la fat liberation e la body positivity stavano producendo un dibattito e un movimento radicali e incentrati sulla lotta alla discriminazione e alla marginalizzazione dei corpi non conformi, in Italia la body positivity era stata svilita a moda e hashtag, ridotta a self-love e indirizzata solo a donne “normopeso” o curvy con qualche “difetto” da accettare. Per anni abbiamo visto saltare sul treno #bodypositive influencer e personaggi vari che continuavano però a promuovere diete, escludere le persone grasse e utilizzare un linguaggio grassofobico. Per questo motivo abbiamo deciso di fare noi quello che ancora in Italia non c’era e creare nel nostro piccolo un po’ di consapevolezza su questi argomenti.
Imprenditrici cercasi
Questa settimana ci teniamo a segnalarvi un’iniziativa importante: il Cartier Women’s Initiative Award 2020, una competizione internazionale che mira a individuare, sostenere e promuovere progetti di business guidati da donne. L’obiettivo è trovare un’idea innovativa da sviluppare: tenendo conto di creatività, sostenibilità finanziaria e impatto sociale delle start-up.
Le vincitrici saranno sette (una per area geografica) e riceveranno un premio in denaro di 100mila dollari, oltre che tutto il sostegno, in termini di affiancamento, networking e comunicazione, per riuscire a realizzare la propria idea. Per le seconde classificate un premio da 30mila dollari, mentre tutti i 21 finalisti riceveranno una borsa di studio per partecipare al programma di formazione per dirigenti dell’imprenditoria sociale dell’InseAD. Insomma, se avete un’idea nel cassetto, avete tempo fino al 14 agosto per candidarvi.
Cose belle che abbiamo letto in giro!
È proprio il tema di questa newsletter: come si esce dal circolo vizioso della bellezza standardizzata a tutti i costi?
Da dove arriva (e che conseguenze ha) il termine «padre di famiglia» in politica? Nel frattempo c’è chi si sta chiedendo cosa significhi essere un uomo oggi, tra lo stereotipo del duro, la mascolinità tossica e molto altro.
Il pregiudizio che accompagna chi ha un colore di pelle diverso dal nostro. E cosa significa essere una donna negli Emirati Arabi.
Tutte le donne che stanno dominando la serialità televisiva in questo momento. Mentre aumentano le autrici e le addette ai lavori nel comparto cinematografico.
Anche in Germania stanno lottando contro la tampon tax (la tassa per cui gli assorbenti sono considerati beni di lusso) e lo fanno con un libro molto particolare. E sempre in tema di mestruazioni e tabù.
In Svezia il congedo di paternità sta davvero cambiando le cose.
L’amicizia tra Mary McCarthy e Hannah Arendt in un film.
A presto!
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