«Tradurre, si sa, è un lavoro che si fa per passione. Non ci può essere un altro motivo al mondo per indurre una persona a dedicare mesi e anni a un’attività mal pagata che dà pochissima visibilità», raccontava Antonietta Pastore storica traduttrice di Murakami Haruki, in occasione dell’uscita del romanzo L'assassinio del Commendatore.
Raccogliere storie, trasportarle da luoghi lontani per renderle accessibili a tutti i lettori: è questo il compito di un buon traduttore che, con garbo ed eleganza, deve districarsi tra tutte le espressioni intraducibili e le allitterazioni nascoste nel testo. «Deve combinare la minuziosità di una formica e l’impeto di un cavallo», spiegava Natalia Ginzburg.
Il materiale da trasportare, per il traduttore, è quindi denso e complicato: su di sé porta il peso del messaggio dell’autore e quello delle aspettative dei lettori. Ma, alla fine, si tratta di un viaggio che vale la pena compiere, perché, come dice Marta Barone, autrice di questa newsletter, se fatta bene: «la traduzione è un abbattimento di barriere, un’apertura sul mondo sempre più vasta e sempre più ricca di voci e differenze».
Illustrazione di Sara Arosio per Senza rossetto
L’esperienza dell’altro
di Marta Barone
Sono stata bambina negli anni Novanta e ragazzina nei primi anni Duemila, un periodo molto felice per la letteratura per ragazzi. C’era finalmente, in ritardo rispetto ad altri paesi, una solida tradizione di bellissimi libri italiani che si rivolgevano sia ai bambini che ai preadolescenti, da Beatrice Solinas Donghi a Roberto Piumini a Bianca Pitzorno a Domenica e Roberto Luciani (e molti altri), e c’era la cornucopia inesauribile dei libri americani, francesi, inglesi, tedeschi e scandinavi da cui editori di collane magnifiche come la Junior Mondadori in tutte le sue declinazioni, Il Battello a Vapore, le Edizioni EL e gli Istrici e i Criceti Salani pescavano a piene mani una selezione di romanzi uno più bello dell’altro e collezionavano autori straordinari. Mi piace sempre ricordare che la prima avventuriera in questo senso è stata Donatella Ziliotto, editrice incomparabile che andò a cercarsi Astrid Lindgren da sola, quando era ancora giovanissima, attraversando la Danimarca in bicicletta, e si accaparrò Pippi, che è uscito per la prima volta in Italia da Vallecchi nel 1958, nella collana per ragazzi “Il Martin Pescatore – I classici di domani per la gioventù”, creata dalla Ziliotto, che rivoluzionò il panorama della narrativa per ragazzi italiana cominciando a importare storie che avrebbero influenzato tutti gli altri. E, indovinate?, Pippi Calzelunghe venne tradotto proprio dall’inarrestabile Ziliotto, con l’aiuto di un’amica svedese.
Questo per dire che Donatella Ziliotto ha fatto per i ragazzini italiani quello che in precedenza avevano fatto Pavese, Fenoglio, Pivano per gli adulti traducendo gli americani e poi gli altri: ha portato libri contemporanei di altri mondi nel loro, che era ancora assai ristretto; e probabilmente l’avrebbe fatto qualcun altro più tardi, prima o poi sarebbe comunque successo, ma intanto l’ha fatto lei, e di questo le sono eternamente grata perché sono molto fedele ai libri che ho letto dall’infanzia all’adolescenza, ed erano soprattutto libri tradotti. A dieci anni avevo già una profonda esperienza dell’alterità, almeno in letteratura: il mio paesaggio mentale era una molteplicità di paesaggi, soprattutto americani, che si muovevano nello spazio e nel tempo, e avevo già dietro un’incredibile quantità di storie individuali di ragazzini di ogni epoca e di ogni appartenenza sociale, che potevano essere dei perseguitati perché neri o ebrei, protagonisti di avventure misteriose e ammantate di fantastico e fantasmi oppure, semplicemente, dei ragazzini normali a cui accadevano delle cose, e di cui venivo a conoscere i sentimenti rispetto a quelle cose – che potevano essere anche, scoprivo, sgradevoli, non “edificanti”, non buoni – sentimenti che a volte provavo anch’io. E, ancora più interessante, non importava il genere di quei ragazzini, non m’importava mai, né lo sentivo, mentre leggevo la loro storia, se era scritta bene, se era una macchina narrativa complessa e ben oliata, se i personaggi erano affascinanti e avevano voci forti e vive; non importava se fossero maschi o femmine (a meno che questo non avesse un peso specifico per la storia). Volevo solo leggere di loro, struggermi per loro, ridere con loro, amarli, odiarli, capirli o non capirli. Per me la loro era una voce diretta: poi prestai più attenzione ai traduttori, ma credo di non aver mai preso in considerazione il loro sesso. Se erano bravi, e si capiva se erano bravi anche a undici anni perché la loro lingua ti suonava assolutamente naturale, quei personaggi ti venivano restituiti in tutta la loro potenza anche se il loro traduttore era di un sesso diverso. O il loro autore. Anche questo imparai presto.
Rimasi molto stupita quando arrivò Internet e scoprii che molti dei libri più belli che abbia mai letto da ragazzina, e che erano inseriti in una collana con striscia rosa chiamata Gaia Junior, quindi rivolta soprattutto alle femmine (e ben pochi maschi, anche grandi lettori, avrebbero oltrepassato quella barriera), in originale non erano usciti con nessuna connotazione particolare. Erano solo storie, né per femmine né per maschi, di femmine e maschi non particolarmente forti, non particolarmente eroici, con drammi e gioie molto comuni, e nessuno pensava alle collezioni di Ragazze Eroiche che fornissero un esempio preclaro di Forza e Sapienza da cui purtroppo ormai siamo ammorbati.
Donatella Ziliotto, pioniera. Da Pensa, giornalino! Diari di una bambina che amava i diari, Bompiani 2018
Sono partita da questa lunga premessa perché è ciò che mi ha formato in primis come lettrice. E perché secondo me l’alterità – il riconoscimento dell’alterità – è alla base dell’attività della traduzione. Il lavoro della traduzione, proprio come quello della lettura, porta per forza di cose a entrare profondamente in contesti, sentimenti e sensazioni altrui che potresti non riconoscere (o in cui non ti immedesimi): ti porta verso l’altro e dentro l’altro; ti spinge quasi con violenza dentro di lui o di lei e ti costringe a ospitarlo in te. Mi chiedono spesso cosa significhi essere un buon traduttore e mi sento di dire che in primo luogo dev’essere un buon lettore, se non un ottimo lettore, della propria lingua originale. Deve conoscerla bene e saperla usare con dimestichezza. Deve saper cogliere le finezze, saper vedere se, cambiando una data parola in un'altra, cancella la possibilità di intravedere un simbolo o una metafora in filigrana; deve capire, soprattutto se non sta traducendo un romanzo di intrattenimento ma un romanzo di alta letteratura, scritto da qualcuno con acuta cognizione di quello che stava facendo, che se cancella le ripetizioni come se fosse il redattore che corregge un articolo di giornale sta facendo un torto al testo, non un favore. Deve saper percepire la voce, il tono, la musica del testo, l'eventuale rete di significanti sotterranei, non tentare di “nobilitare” o “antichizzare” con il rischio di infiorettare troppo o trasformare la pagina in un verbale dei carabinieri (cito sempre una vecchia traduzione di Cime tempestose, che ho ritradotto l’anno scorso per Bompiani, in cui un normalissimo “He died” diventa “Il decesso sopravvenne”, e mi fa ancora ridere), non allungare eccessivamente una frase per non distruggere il ritmo, non sovrapporsi e cercare di restituire il più fedelmente possibile (senza pessimi calchi dalla lingua di partenza e rispettando la sintassi e la naturalezza della lingua di arrivo) tutto quello che è il testo originale.
Questo significa anche che non deve adeguare il mondo dell’autore al proprio, semplificando specificità proprie di un luogo e della sua storia, cancellando razzismi antichi se il romanzo è di un’altra epoca, o aggiungendone di suoi (altro esempio: ho ritradotto anche Peter Pan di recente; la “mind” di Mrs Darling, in una vecchia traduzione, diventava “cervellino”. Capito, bambini?). Con l’allargamento dei confini dalla letteratura puramente occidentale alla letteratura di altri continenti, a mio parere, questo processo sta diventando sempre più spontaneo; l’inclusività e la diversità sono cose con cui la traduzione deve continuamente confrontarsi, anche se nella nostra lingua ci sono difficoltà in più rispetto al neutralissimo inglese. Nei paesi come Gran Bretagna e Stati Uniti, infatti, si sta discutendo da tempo se abolire il riferimento al genere in assoluto, e molti romanzi per young adults ultimamente hanno protagonisti che scelgono di non appartenere a nessun genere, cosa in inglese si rende col neutro: ma in italiano, che ti obbliga necessariamente al maschile o al femminile, come fare? Queste sono le nuove sfide del mondo nuovo. In un romanzo sudafricano scritto in inglese che ho tradotto l’anno scorso l’autrice, Kopano Matlwa, che tra l’altro scriveva con grande precisione e ferocia di endometriosi, e mi ha un po’ intristito vedere che nessuno se n’è accorto perché l’endometriosi c’era anche in Sally Rooney e per la prima volta se ne parlava, come ho letto in giro – non era vero: l’aveva fatto prima una scrittrice sudafricana - sceglieva di mantenere intere frasi di dialogo nella lingua xhosa, soprattutto gli epiteti razzisti (ebbene sì: nel Sudafrica degli ultimi anni, ho scoperto traducendo questo romanzo, esiste un razzismo violentissimo verso gli immigrati di altri paesi africani, che vengono sottoposti a veri e propri pogrom occasionali). Mantenere la sua scelta non significava solo rispettarla come autrice ma anche restituire un’eco, un suono, di quel mondo che ignoriamo totalmente.
Certo, il canone è ancora in prevalenza occidentale, bianco ed eterosessuale, e sarà lunga allargare il campo: ma io non sono mai stata della scuola per cui un libro è valido solo se viene da una minoranza oppressa, e credo fermamente che i buoni libri prima o poi troveranno lo spazio che meritano, da qualunque posto provengano, chiunque, di qualunque genere o non genere sia, li abbia scritti (mi preoccupa di più l’estrazione sociale: più che il genere, credo sia la classe il nostro problema principale, o per meglio dire, sono due problemi strettamente intrecciati). Penso a due esempi recenti: il libico Hisham Matar con Il ritorno e lo splendido Vita in famiglia dell’indiano Akil Sharma - che però, va detto, sono due autori che hanno passato la maggior parte della vita in Occidente. Ma sono una comparatista di formazione, e ho fiducia nel futuro per deformazione professionale.
La traduzione, per me, rappresenta la promessa più fulgida di questo futuro libero, come apertura sul mondo sempre più vasta e sempre più ricca di voci e differenze. La traduzione è di per sé un abbattimento di barriere, se fatta bene. Abbiamo diversi eccellenti traduttori, uomini e donne, che traducono indifferentemente libri scritti da persone del sesso opposto o del proprio, che sanno già che il problema non è se riuscire a restituire un problema o un sentimento “femminile” o “maschile”, ma come rendere nel modo più vicino quel gioco di parole intraducibile, come tentare di riprodurre uno slang, come rispettare le rime e la metrica di una poesia, la musicalità di quel paragrafo, la bellezza struggente di quell’allitterazione. Di qualunque minuzia parli ciò che si sta traducendo, se è grande scrittura quella minuzia è già universale. Dalle donne al parchetto di Grace Paley ai pensieri contraddittori di Levin quando nasce il suo bambino in Anna Karenina. La letteratura vera è già libera. Continuiamo a liberarla, continuiamo a tradurre e a portare l’altro verso di noi.
Marta Barone è nata nel 1987 a Torino. È traduttrice e consulente editoriale. Ha pubblicato tre libri per ragazzi con Rizzoli e Mondadori. A gennaio 2020 uscirà per Bompiani il suo primo romanzo, Città sommersa.
Cose belle che abbiamo letto in giro!
Se ve lo foste persi, in occasione dell’ultima Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne (lo scorso 25 novembre), l’Istat ha diffuso un report sugli stereotipi di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale. Dati non proprio incoraggianti.
Ancora su Annie Ernaux, ancora su Joan Didion, che non è mai troppo!
Un po’ di nuove uscite in libreria per le autrici che abbiamo ospitato nel nostro podcast: Lorenza Ghinelli ha appena pubblicato per Marsilio il romanzo Tracce dal silenzio; Annarita Briganti ha da poco pubblicato un saggio su Alda Merini, mentre Ester Armanino è in libreria con il libro per bambini Una balena va in montagna, illustrato da Nicola Magrin.
La rabbia femminile come viene raccontata nei libri e cosa dobbiamo farne: urlare e strepitare, trasformarla in energia positiva, dissociarci da quello che ci circonda? Basta che la smettano di chiamarci nazifemministe.
Cento film diretti da donne (quanti ne avete visti?) e una storia culturale del gaslighting nel cinema.
Un’intervista (lunga tre anni) a Billie Eilish e, per finire, un video musicale che è un inno alla masturbazione femminile.
A presto!
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