33 anni, inglese, attrice e scrittrice per teatro e televisione (e ora anche cinema). È impossibile non innamorarsi di Phoebe Waller-Bridge: spilungona, dallo sguardo stranito che punta dritto in camera, un’intelligenza manifestata con grande sarcasmo, la capacità di raccontare il corpo, il sesso, l’essere donna con grandissima libertà e senza paura di sembrare rude.
Cose sue che potete vedere subito:
- Crashing su Netflix, di cui è autrice e protagonista. Una serie comedy simpatica su un gruppo di ragazzi che si occupano di un ospedale abbandonato a Londra in cambio di un affitto irrisorio, in una situazione molto da comune giovanile.
- Killing Eve su Tim Vision, di cui è sceneggiatrice. Una serie investigativa un po’ pazza in cui Sandra Oh (tra l’altro, prima attrice di origine asiatica a vincere un Golden Globe proprio con questo ruolo) è una detective all’appassionata ricerca della assassina sociopatica Villanelle (Jodie Comer).
E poi c’è Fleabag.
Quando abbiamo finito la seconda stagione io (Giulia P.) e Ludovica, la mia coinquilina, eravamo immerse nell’oscurità della sua camera. Ci siamo guardate, commosse, emozionate e terribilmente tristi. Da lì avremo passato almeno una settimana a mandarci meme e articoli per cercare di colmare il vuoto che sentivamo dopo averla terminata (e abbiamo comprato anche un biglietto per andare a vedere lo spettacolo teatrale a Londra, se non è disperazione questa).
Non potevamo quindi non parlare di questa serie e di questa autrice che tanto ci ha colpito. E per farlo abbiamo coinvolto una persona che di tv se ne intende (essendo anche co-direttrice di un festival apposito): Marina Pierri.
Phoebe Waller-Bridge nella seconda stagione di Fleabag
Au revoir, Fleabag
di Marina Pierri
Non scrivo mai di me quando scrivo di serie tv. Sono stata abituata a restituire le percezioni di una sorta di occhio meccanico su cui esiste una persistenza retinica artificiale. L’occasione, però, richiede qualcosa di diverso. E la mia coscienza è convinta che sia molto difficile raccontare Fleabag senza tirare in ballo, almeno in qualche misura, la propria intimità e la propria esperienza con Fleabag. È come se fosse la serie fatta di rotture della quarta parete a domandare, a chi ne discute, di abbattere le proprie pareti. All’eroina di Phoebe Waller-Bridge non basta essere osservata. Vuole instaurare un dialogo silenzioso con lo spettatore che non ritiene, improvvisamente, di potersi sottrarre alla stessa urgenza. Anche se non ne ha alcuna voglia.
Ho guardato la seconda stagione di Fleabag mentre mi trovavo in un appartamento gelido nella prima periferia di Cannes. Ero lì perché si teneva Canneseries, e siccome anche io sono co-direttrice artistica di un festival delle serie tv l’idea di guardarmi attorno era ottima sulla carta. Era ottima anche non sulla carta, a dire il vero, ma detestavo il bilocale sterile con mobili giallastri il cui nome su Air BnB era «Poésie» sebbene di poetico non avesse nulla a parte la vista su una piazza buia con una palma solitaria a farle da ombelico. Mi attendeva un mese molto lungo fatto di continui spostamenti. Sarà capitato anche a voi, di tanto in tanto, di sentirvi decentrati; occlusi. Come se il petto avesse smesso di parlare alla testa per fingere che la stanchezza non esiste.
Erano i primi di aprile. Fleabag era già ripartita da qualche tempo in Inghilterra (la seconda stagione sarebbe arrivata da noi, su Amazon Prime Video, più tardi: il 17 maggio) ma non ce l’avrei fatta a guardarne venti minuti a settimana; mi conosco. Così ho aspettato. E aspettato. Fino a quando, nella mia seconda notte a Cannes, ho guardato il primo dei cinque episodi che serbavo nel computer come fossero depositari di un’autenticità universale. Fleabag, del resto, è uno show profondamente autentico e non esiste autenticità che non sia in qualche modo universale. È anche uno show scomodo. E ho la sensazione che non esista autenticità che non sia scomoda per qualcuno; per se stessi prima di tutto, probabilmente. È uno show intimo. E non esiste scomodità senza intimità perché per concedersi di rovistare nei propri cassetti occorre girare la chiave, e accettare il disordine.
Poésie non aveva termosifoni, porca miseria. Guardavo Fleabag sotto le coperte sottili, con un paio di maglioni addosso e una valigia sbudellata di fianco che faceva somigliare le mie mutande a interiora sparpagliate. La luce tenue della piazza con la sola palma penetrava dalle portefinestre e si confondeva con quella del ristorante londinese dov’è ambientata la prima puntata della seconda stagione. Notavo i dettagli delle federe fantasia di qualcun altro e allo stesso tempo i dettagli degli outfit strepitosi di Waller-Bridge. Nel pomeriggio, a Canneseries, avevo intervistato Gregg Araki che mi aveva detto: «Uno show, oggi, è 90% casting. Se gli attori non rimangono istantaneamente impressi, e non si amalgamano a una visione audace, l’unica cosa che si otterrà sarà un prodotto identico a decine di altri». È vero, mi dicevo assorbendo i colori delle magliette a righe di Fleabag. È vero, mi ripetevo perché per qualche ragione io non solo volevo vestirmi come la femmina iconica che vedevo muoversi goffamente, ma elegantemente, nello schermo del mio laptop ma lei e io eravamo in qualche modo la stessa persona. Non è un caso che Fleabag non abbia un nome, ma un soprannome. È tutte. E nessuna. La serie non «parla» di niente. Parla dell’essere femmine a proprio modo e nei propri termini, e le più fortunate tra noi sanno benissimo quanto complicata sia una faccenda così semplice.
I cinque episodi della seconda stagione di Fleabag che avevo a disposizione li ho consumati in una notte sola. La finale ancora non c’era. Al mattino mi ci erano voluti pochi secondi per trovare su Spotify uno dei brani della colonna sonora, il Masquerade Suite: Waltz e a sole alto, in centro, camminavo per Cannes con le cuffie nelle orecchie. Provavo a capire cosa vi fosse di così speciale nella serie, a parte la «solita» roba. Cosa mi avesse tramesso tutta quell’autenticità. Un’ottima ideazione e un ottimo showrunning, certamente; un’ottima sceneggiatura. Grandi personaggi secondari. Un intreccio che, nella sua quotidianità schiacciante, non stanca per un attimo. Una durata corretta che asciuga la messa in scena fino a ridurla all’assoluto essenziale. «Mi metterò magliette a righe e le salopette, sì», finivo a dirmi tra me e me, pure certa che mi sarebbero state male perché Phoebe Waller-Bridge è alta e io indosso benissimo le felpe taglia dieci anni.
Ho guardato l’ultimo episodio di Fleabag il 10 aprile, nell’ultima notte che ho passato a Cannes. Ho pianto disperatamente sulla sequenza finale della stagione; quella della fermata d’autobus, per intenderci. Ai tempi non avevo ancora letto che la serie non sarebbe tornata ma qualche angolo della donna che è tutte le donne ed è anche dentro di me, e assomiglia precisamente al personaggio di Waller-Bridge, doveva averlo capito; altrimenti non riesco tuttora a spiegarmi il perché di quella cascata di lacrime che non poteva derivare dalla sola visione di una storia d’amore andata storta. La mattina dopo, quando mi sono svegliata, sul balcone di Poésie si è appollaiata una tortora. Ho ricomposto le interiora della mia valigia e salutato l’appartamento con un affetto che non pensavo possibile provare nel momento in cui c’ho messo piede. Vorrei poter dire che Waller-Bridge, costringendomi a instaurare quel dialogo silenzioso con la sua protagonista, aveva sturato il legame tra il mio cuore e il mio cervello; vorrei poter applaudire il potere catartico dell’autenticità universale dello show o rivelarne la straordinaria verità a me dischiusa ma il punto è un altro. Ho salutato l’appartamento con affetto perché lo ricorderò per sempre. Lì, davanti a quella palma del cazzo, ho detto addio a Fleabag.
Marina Pierri scrive di serie tv su Il Corriere della Sera e Vanity Fair. È docente e coordinatrice allo IED di Milano. Dal 2018 è co-direttrice artistica di FeST - Il Festival delle Serie Tv.
Cose belle che abbiamo letto in giro!
Le elezioni europee sono finite, con dei risultati non molto promettenti per i diritti delle donne e in larga parte a causa delle donne. Ma non scoraggiamoci e continuiamo a lottare, perché le battaglie si vincono e anche perché queste elezioni non hanno portato solo brutte notizie: per esempio a Tromello, in provincia di Pavia, è stato eletto il primo sindaco transgender nella storia del nostro Paese.
Peraltro, proprio in questi giorni l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha finalmente rimosso la transessualità dalla lista delle patologie mentali.
Oppure prendete il #MeToo, che quantomeno ha cambiato molte delle serie TV che guardiamo e molto di quello che vediamo sulle passerelle dell’alta moda.
“Donne, bianche, etero. Nel migliore dei casi sono loro in Europa a parlare di parità di genere”. Ecco perché è giusto ricordare che il femminismo è anche intersezionalità.
Ma poi, quanto inquinano questi assorbenti? E sempre in tema di mestruazioni, un bel libro per ragazzi illustrato da Ilaria Urbinati (che per noi ha illustrato il racconto di Carolina Capria nella terza stagione del podcast).
Ancora su questioni di genere e linguaggio, quello sui social e quello nei bagni pubblici. Comunque, riconoscere il sessismo si può.
E ancora su aborto, desiderio di fare una famiglia e maternità.
Il Man Booker International Prize è stato vinto da una donna araba: Jokha Alharthi, autrice del romanzo Celestial Bodies. Nelle librerie italiane invece è arrivato il nuovo romanzo di Sally Rooney, l’acclamata autrice di Parlarne tra amici. L’ha tradotto per Einaudi Maurizia Balmelli, perché sì, le donne traducono.
Al cinema c’è il live-action di Aladdin, che a pensarci bene, non assomiglia un po’ a quel vostro ex…?
E non dimenticatevi che domenica 2 giugno ci vediamo qui (ma potete anche ascoltarci in diretta su Spreaker) per una puntata specialissima del nostro podcast!
A presto!
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