Negli ultimi anni le storie di emancipazione da comunità religiose chiuse e totalizzanti hanno trovato spazio crescente nelle narrazioni, intercettando un bisogno collettivo di comprensione, riconoscimento e testimonianza. Pensiamo per esempio a L’educazione di Tara Westover, caso editoriale internazionale, che racconta la fuga di una giovane donna da una famiglia mormone radicale dell’Idaho. O ad Unorthodox, celebre serie Netflix che ha tenuto compagnia a molti di noi nella primavera 2020 'durante il lockdown, che racconta l’uscita di una giovane ragazza dalla comunità ebraico-ortodossa di Williamsburg. O ancora ai romanzi di Miriam Toews, tra tutti le pagine di Donne che parlano, in cui l’urgenza narrativa si intreccia alla denuncia, dando voce alle donne mennonite che tentano di sopravvivere e resistere dentro strutture religiose e patriarcali opprimenti.
Non impossibile, ma sicuramente più difficile trovare narrazioni simili nel panorama italiano. Nel gennaio di quest’anno, però, HarperCollins ha dato alle stampe Il dio che hai scelto per me, romanzo d’esordio di Martina Pucciarelli. La protagonista Alessandra, alter ego è dell’autrice, cresce nella comunità dei Testimoni di Geova, dove ogni aspetto della sua esistenza — dal modo di pensare ai rapporti familiari, dalle emozioni alla gestione del tempo — è regolato da un’autorità religiosa onnipresente e da un’irraggiungibile idea di purezza. Solo attraverso la maternità e la terapia, due esperienze profondamente trasformative, Alessandra riesce a mettere in discussione quella struttura e a costruire per sé una via d’uscita.
Il romanzo affronta il trauma dell’abbandono, la frattura con le proprie radici, il senso di colpa che accompagna ogni forma di rottura. Ma soprattutto mette al centro il diritto all’autodeterminazione, alla complessità, al dubbio. Come le opere citate, anche il libro di Pucciarelli racconta una donna che si libera. Ma lo fa in un contesto — quello italiano — dove la pressione sociale al silenzio è spesso più sottile, e quindi ancora più difficile da nominare.
Oggi nella newsletter parliamo di traumi, di dubbi, di scelte e di vie d’uscita proprio con Martina Pucciarelli, a partire dalla lettura del suo romanzo.
Una scena della miniserie tv Unorthodox
Figlia di qualcuno, figlia di un’idea
Intervista a Martina Pucciarelli intorno al libro Il Dio che hai scelto per me (HarperCollins, 2025)
Come stai vivendo questo periodo dopo la pubblicazione: è passato un po’ di tempo ormai, com’è andata finora?
Sono passati più di tre mesi—il libro è uscito il 21 gennaio. Onestamente, non ho un’idea precisa di come stia andando dal punto di vista “tecnico”: non controllo le classifiche, non chiedo se sta vendendo bene. Ho scelto consapevolmente di tenere una certa distanza.
Mi interessa di più l’eco che sento nelle presentazioni, nelle persone che vengono, che fanno domande, che si commuovono o si raccontano. È lì che, per me, si misura il vero impatto di un libro. E in questo senso, sento che sta succedendo qualcosa di importante.
Quello che mi rende più felice, più ancora della ricezione critica o del “successo”, sono le connessioni che si sono create intorno al libro. Tante persone mi scrivono, e molte sono Testimoni di Geova, o lo sono stati. Mi raccontano le loro esperienze, e lo fanno con una fiducia che per me è preziosa.
E ora, lentamente, iniziano a scrivermi anche lettori che non hanno mai fatto parte di quella comunità. È come se il libro avesse aperto una porta: ognuno, da fuori o da dentro, riesce a intravedere qualcosa che risuona con la propria storia.
Questo è molto forte, soprattutto perché, in Italia, c’è pochissimo racconto di esperienze di uscita da comunità religiose. È qualcosa che si racconta ancora con molta cautela. Come hai vissuto la reazione del pubblico italiano?
All’inizio ci sono stati attacchi, sì. Alcuni membri della comunità mi hanno scritto privatamente o hanno commentato pubblicamente per esprimere disappunto, a volte con toni duri. Ma ho notato anche un’altra cosa: molti di quei commenti poi scompaiono. Vengono cancellati.
C’è una forte pressione interna a non esporsi, a mostrare compattezza verso l’esterno. Ma dietro quella cortina, ci sono crepe. E in mezzo a quegli attacchi iniziali, sono emerse anche voci di sostegno, persone che si sono esposte per difendermi. È stato sorprendente, e commovente.
Le reazioni di solidarietà hanno superato di gran lunga quelle negative. E c’è una sete evidente di racconto autentico.
Dei Testimoni di Geova si è scritto, sì, ma spesso in modo vago, elusivo. Io volevo dire chiaramente cosa significa viverci dentro, soprattutto se ci nasci. È una dimensione che condiziona ogni angolo della tua identità.
E quando hai deciso che questa storia andava messa su carta? Che era tempo di raccontarla così, frontalmente?
Non è stato pianificato. Una ragazza che aveva lavorato al giornalino del liceo con me mi ha detto: “Perché non scrivi la tua storia?”. Era un suggerimento semplice, ma ha acceso qualcosa. Ho iniziato a scrivere un po’ come rifugio, come fuga. Era un modo per non pensare alla vita vera, alla fatica quotidiana.
Quella ragazza collaborava con una piccola casa editrice. Alla fine, non sapeva bene come aiutarmi, ma intanto io avevo capito che stava nascendo qualcosa di più profondo.
Scrivendo, ho sentito che finalmente potevo spiegarmi. E spiegarsi, per chi viene da realtà così chiuse, è un atto rivoluzionario. Quando esci da lì, non riesci subito a raccontare. Ti capisci solo con chi ha vissuto esperienze simili. Con gli altri serve uno sforzo enorme. Il libro è diventato quel ponte.
Una cosa che colpisce molto nel romanzo è il momento in cui la protagonista trova la forza di rompere con la comunità religiosa, anche grazie all’esperienza della maternità. Ti rispecchi in questo? È stato così anche per te?
Assolutamente. Diventare madre ha fatto esplodere dentro di me una serie di consapevolezze che prima erano silenziose.
Ho iniziato a rivedere me stessa come figlia, e questo ha cambiato tutto. È emerso un senso di responsabilità, verso i miei figli ma anche verso me stessa, che non avevo mai davvero abitato prima.
Non voglio dire che la maternità sia stata salvifica—non credo nei miracoli—ma è stata un passaggio cruciale. Un catalizzatore.
Con la seconda gravidanza, certe domande non potevano più essere messe da parte. E in parallelo ho iniziato un percorso psicoterapeutico che mi ha aiutato a dare forma a quei dubbi, a portarli fino in fondo.
Se non fossi diventata madre, forse ci avrei messo più tempo. O forse non sarei mai riuscita a guardare certi nodi negli occhi.
A proposito di scelte: il titolo del libro è molto evocativo. Come siete arrivati a Il Dio che hai scelto per me?
Il titolo iniziale era Due madri, perché il romanzo è attraversato da figure materne. Si apre con la madre di Alessandra e si chiude con un confronto finale intenso. Ma l’editore sentiva che mancava un’eco al tema religioso.
Io volevo comunque che ci fosse la madre, che fosse un punto di partenza. Così ho proposto io questo titolo.
Quel “hai scelto” è rivolto alla madre: è lei ad aver scelto quel Dio per sua figlia. C’è dentro l’idea di un destino tracciato, di una fede imposta.
Alla fine ho sentito che quel titolo racchiudeva il conflitto centrale del libro: essere figlia di qualcuno, ma anche figlia di un’idea. E poi cercare la propria voce.
C’è sempre una tensione tra la scrittura e la vita vera, soprattutto quando si parte dalla propria esperienza. Cosa hai scelto di lasciare fuori dalla narrazione?
Questa è la domanda che mi fanno più spesso. E ha senso, perché il libro è una forma di autofiction.
Vi faccio un esempio: nel romanzo il marito di Alessandra muore. Nella prima stesura non succedeva. Poi, confrontandomi con l’editor, ho capito che serviva anche a tutelare alcune persone, a proteggere uno spazio.
I miei genitori non li sento da nove anni. Sono stati loro a chiudere ogni contatto, anche quando io li cercavo. È come se non esistessero più.
Non ho voluto raccontare la fine reale del mio matrimonio. È stata dolorosa, per entrambi. Ma non era il luogo. Sarebbe stato troppo.
C’è un tema che mi dispiace emerga poco: quello dell’emancipazione femminile. Alessandra è totalmente dipendente da suo marito, non ha un lavoro, né un conto corrente. Nel libro si accenna, ma nella vita reale è stato molto più duro.
Lasciare senza una rete, senza un reddito, senza una casa, è un atto di sopravvivenza, ma anche di estrema solitudine.
Ecco perché dico che la scrittura non è terapia. La terapia la fai con uno psicoterapeuta. La scrittura è un altro lavoro. Ha a che fare con struttura, ritmo, tensione narrativa.
Ho scelto di non raccontare tutto. Per tutela, ma anche per coerenza narrativa.
Un passaggio che a noi ha molto colpito invece è proprio quello in cui Alessandra si sposa, e il marito le chiude il conto corrente. All’inizio sembra una forma di protezione, ma oggi, per la maggior parte delle ragazze giovani, è impensabile. Hai notato reazioni diverse tra generazioni?
Sì, ma non come immaginavo. Pochi colgono quel passaggio. Ci si concentra più sulla religione, sull’identità.
Ho fatto un incontro con un gruppo di lettura di donne adulte, e lì sì, è venuto fuori. Donne che avevano già fatto un percorso di liberazione, che conoscevano bene certe dinamiche.
Chi mi scrive, spesso, è una donna che ha ripreso in mano la propria vita, che ha studiato, che ha lasciato un matrimonio. Con le ragazze più giovani non c’è stato ancora un confronto vero. Mi manca.
Chi ha vissuto la privazione della libertà, però, riconosce subito i segnali. E può difendersi meglio. Ma serve tempo, consapevolezza, educazione.
Dopo tutto questo percorso, che spazio ha oggi la spiritualità nella tua vita?
Per anni ho chiuso tutto fuori. Ogni forma di spiritualità era per me contaminata.
Solo adesso sto iniziando a riconsiderare quel rifiuto. Mi rendo conto che era un modo per proteggermi, per difendermi.
Sento ancora il desiderio di credere in qualcosa, ma non riesco ad affidarmi. Vivo coi piedi per terra, ma non in modo cinico. Il cinismo non mi appartiene.
Oggi, se compio un gesto di cura, lo faccio perché credo nell’altro, non perché un Dio me lo impone. E questo, in fondo, è una forma di fede.
Vado ogni tanto a una festa ebraica, o a una messa. Mi incuriosiscono tutte le fedi, ora che non mi sento più minacciata.
Ma non credo mi convertirò. Ho trovato altri punti di riferimento: la famiglia, la verità, l’etica dei gesti.
E hai trovato, quindi, nuovi punti di appoggio, una nuova bussola?
Sì, dovevo. Era necessario.
La maternità è diventata per me un metro. Non voglio mitizzarla, ma quando ho un dubbio, mi chiedo: “Se mia figlia venisse da me con questa cosa, io cosa le direi?”.
Ecco, lì trovo la risposta.
I miei figli sono un riferimento silenzioso ma potente. Cerco di non caricarli di aspettative, di lasciare che si separino, ma dentro di me sono il mio punto fermo.
È un amore che non chiede nulla, che dà e basta. E io provo ad applicare quel modello anche alle relazioni più difficili, anche a chi non capisco.
L’ultima domanda — e sappiamo che è delicata: non senti i tuoi genitori da anni. Come si convive con quel silenzio?
È un lutto. Non metaforico, reale.
Sai che sono vivi, ma è come se fossero morti. Non sentirli da nove anni significa non sapere nulla, non avere memoria condivisa, non avere conforto.
Si vergognano di me. Questo mi è stato detto. E allora ti concentri su altro.
Non sono io ad averli abbandonati. Ho scelto di rispettarmi. Ma certi giorni, la vita te lo ricorda.
Come quando devi fare un test genetico e ti dicono che senza la storia medica materna mancano dati fondamentali. E non puoi fare nulla.
Oppure quando all’asilo ti chiamano perché tuo figlio sta male, e ti ritrovi sola. Un genitore mancante pesa sempre.
Ma costruisci altro. E vai avanti. Non per dimenticare, ma per sopravvivere con dignità.
Martina Pucciarelli è nata a Barga (LU) nel 1987 ed è cresciuta a Livorno. Dal 2006 vive e lavora come impiegata in provincia di Milano. Il Dio che hai scelto per me (HarperCollins, 2025) è il suo primo romanzo.
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A presto,
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Bellissima intervista, grazie!