«Il mio lavoro non è quello di rimpiazzare i cittadini medi maschi con donne che hanno più o meno gli stessi privilegi: è comprendere chi è stato escluso dal processo di costruzione e sviluppo delle città. Interrogarsi su chi sia la persona che gli amministratori si immaginano vivere quegli spazi».
Questa settimana Giulia P. ha avuto l’occasione di intervistare Leslie Kern, autrice de La città femminista, un saggio da poco arrivato in Italia grazie a Treccani, il cui tema principale è capire come, applicando la teoria del femminismo intersezionale, si possano costruire città più eque. Non solo per le donne, ma per tutte le categorie marginalizzate. Si tratta di un dibattito che recentemente ha preso molto piede, perché ci vede tutte e tutti coinvolti: che siate una donna che torna a casa di notte da sola, una mamma che spinge un passeggino, una persona con disabilità o migrante, le vostre esperienze all’interno della città saranno molto diverse rispetto a quelle delle persone che gli amministratori locali si erano immaginati essere i cittadini “standard”: gli uomini bianchi.
Per questa newsletter abbiamo quindi voluto comprendere meglio come una città possa diventare davvero femminista, quali siano le difficoltà e le aree su cui poter intervenire. E lo abbiamo fatto con una persona che per lavoro e passione si occupa di questioni di genere e giustizia sociale: Lilia Giugni.
Illustrazione di Francesca Ponzini per Senza rossetto
Può una città essere femminista?
Intervista a Lilia Giugni
«Ho un interesse personale per quanto riguarda gli spazi e i modi in cui l’ingiustizia di genere e l’ingiustizia sociale si manifestano in città. Anche per motivi molto personali: io sono cresciuta in una grande città - che è Napoli - e ho avuto la fortuna di vivere in varie realtà urbane, tutte belle ma anche complicate. Quindi, con la città come spazio ho un rapporto particolare, quasi di amore/odio», ci racconta Lilia Giugni durante la nostra intervista. Lilia è una ricercatrice italiana presso il Centro Studi di Innovazione Sociale dell’Università di Cambridge. Politologa esperta di questioni di genere, i suoi ambiti di ricerca sono il gender washing, l’hate speech online e in questo momento l’analisi dell’intersezione tra oppressione di genere e oppressione mafiosa in Sicilia. Lilia è anche la co-fondatrice e direttrice di GenPol-Gender & Policy Insights, un think tank che si occupa di giustizia sociale e parità di genere.
«A Cambridge, dove io ho studiato e dove lavoro, ci sono questi college con grandi sale e grandi tavolate dove si mangia - un po’ alla Harry Potter, per intenderci - e alle pareti ci sono dei ritratti. Ritratti di presidi o di alumni notabili: ovviamente, sono tutti maschi. E tutti bianchi. A lungo si è discusso dell’impatto che questo poteva avere su una studente, magari una ragazza non bianca che non si vede assolutamente rappresentata su quelle pareti», racconta Lilia quando le chiediamo come pensa che la toponomastica delle città possa influire sulla nostra percezione del presente e sulla nostra costruzione della memoria. È proprio del rapporto tra spazio urbano e femminismo che vogliamo parlare con lei, e di come una prospettiva di genere e intersezionale possa rivoluzionare il nostro modo di vivere e progettare le città. «Secondo me, i simboli sono estremamente importanti, hanno un potere enorme sul nostro immaginario. Ogni istituzione – e anche il patriarcato, che è un sistema di potere − ha i suoi simboli e forse questi più di ogni altra cosa fanno veramente presa sul modo in cui le persone fin da bambine pensano, immaginano e quindi agiscono. Certo, poi dietro le scelte simboliche ci vuole la sostanza, l’intervento di policy».
Su questi temi ritorna anche La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, il saggio della ricercatrice canadese Leslie Kern, da poco tradotto in italiano da Natascia Pennacchietti per Treccani Libri. A un certo punto l’autrice afferma: La città femminista è quella in cui le barriere - fisiche e sociali - vengono smantellate e tutti i corpi sono accolti e ospitati allo stesso modo. La città femminista mette al centro l’assistenza, non perché questa debba rimanere un lavoro esclusivamente da donne, ma perché la città ha il potenziale per ripartirla in modo più uniforme. La città femminista deve prendere spunto dagli strumenti creativi che le donne hanno sempre utilizzato per sostenersi a vicenda e trovare modalità per ricreare quel supporto all’interno del tessuto urbano stesso.
Con Kern, Lilia condivide la convinzione che da un approccio femminista alla città, alla progettazione urbana e al modo di vivere gli spazi non beneficerebbero solo le donne, ma le comunità intere. E anche l’idea che le scelte fatte per risolvere quelle problematiche di genere codificate e incancrenite negli spazi urbani (ovvie, in contesti progettati perlopiù da maschi privilegiati) debbano tenere conto non solo delle conseguenze per le donne, ma per tutti quei gruppi sociali storicamente marginalizzati e oppressi.
Prendiamo un esempio che riporta anche Kern nel suo saggio: raramente ci pensiamo, ma buona parte dell’emancipazione che in quanto donne occidentali abbiamo raggiunto la dobbiamo a donne migranti che, arrivate nei nostri Paesi, si sono sobbarcate quel lavoro di cura che noi non vogliamo più fare e che non siamo state in grado di distribuire con il genere maschile. La nostra libertà è frutto dello sfruttamento di donne meno privilegiate di noi, e anche questo fenomeno ha una dimensione spaziale che fatichiamo a vedere. «Quando si pensa al gig work normalmente si pensa al deliverer, al rider o all’autista di Uber, ma in realtà anche il settore della cura (le pulizie, l’assistenza agli anziani o ai malati) al momento è fagocitato da questo tipo di business model. Questo ha un impatto enorme sulla vita delle persone: in questo caso sono tendenzialmente donne non bianche, con un background migrante, precarie, che fanno due o tre lavori insieme e si devono spostare da un capo all’altro della città spesso a proprie spese. Se ci si pensa un attimo viene scoperchiato un vaso di pandora. Queste donne spesso lavorano su turni, con orari molto particolari, ed ecco che questo va a intersecarsi con un problema di sicurezza delle strade, delle stazioni, di presenza dei mezzi pubblici e molto altro...».
Quello della sicurezza delle strade è un altro tema spesso discusso in una prospettiva di genere quando si parla di città e spazio urbano, e un argomento che torna ciclicamente nel dibattito pubblico, troppo spesso purtroppo solo in seguito a casi di femminicidi o di violenza di genere (pensiamo, per esempio, al recente caso di Sarah Everard). E troppo spesso nei termini sbagliati. Come dice Lilia, «Sicurezza, di per sé non è una parola sbagliata, il problema è che nel corso degli anni e dei decenni è stata egemonizzata da una serie di forze destrorse. In Italia come in altri Paesi». Ma la risposta è davvero limitare il diritto di riunirsi negli spazi pubblici e farli propri? L’approccio securitario serve a prevenire la violenza?
«Io penso che la violenza di genere, come tutte le forme di violenza, si prevenga tramite interventi educativi. Per cui in Italia, un Paese dove non c’è ad oggi un curriculum nazionale di educazione sessuale o sentimentale, si dovrebbe fare un passo indietro prima di discutere cosa la Polizia possa e debba fare. Che cos’altro serve a prevenire o ad affrontare la violenza di genere, in particolar modo nelle strade e negli spazi pubblici? Spazi di socialità, spazi dove le donne, le ragazze possano incontrarsi e luoghi che offrano supporto e un posto dove andare a chi sopravvive a varie forme di violenza».
Nell’Handbook for Gender-Inclusive Urban Planning and Design della Banca Mondiale pubblicato a febbraio 2020, viene poi sollevato un altro argomento molto importante per il ripensamento delle città in senso più inclusivo: il tema ambientale. In molte società le donne sono più vulnerabili e meno reattive di fronte al cambiamento climatico a causa della loro posizione sociale subalterna (ne abbiamo parlato a inizio 2021 proprio qui nella newsletter con Chiara Soletti) e non dobbiamo assolutamente dimenticarcene nel momento in cui progettiamo le città del futuro in ottica più green. Come ci dice giustamente Lilia, quando parliamo di cura in senso femminista non intendiamo solo la cura della persona - quindi cura di sé o la cura degli altri -, ma anche la cura della comunità, la cura degli spazi e quindi la cura dell’ambiente. Una prospettiva femminista sulla gestione politica, economica, urbanistica delle città non può che essere anche ecologica.
Ma come si risponde concretamente a tutta questa complessità? Nell’ambito delle istituzioni internazionali (pensiamo all’ONU e alle sue varie agenzie, ma anche in molte istituzioni europee) esiste un approccio al policy making che ha proprio l’obiettivo di rispondere in modo pratico a questa necessità. È il cosiddetto gender mainstreaming, un principio di azione applicabile a ogni ambito progettuale e che si fonda su due pilastri fondamentali: il primo è che donne e ragazze debbano essere sempre direttamente coinvolte in tutte le fasi del ciclo di policy (dalla progettazione al design, fino al monitoraggio e alla valutazione). E queste donne non devono essere solo donne coinvolte o impegnate in prima persona nel ciclo di policy in questione, ma anche donne della società civile che possano portare la propria esperienza e il proprio punto di vista. Il secondo principio è quello di impegnarsi a valutare attentamente l’impatto di genere della policy stessa nelle sue varie fasi: prima di approvare qualsiasi tipo di provvedimento va considerato seriamente il suo possibile impatto su donne e ragazze. «Io a questo aggiungerei un approccio intersezionale - dice Lilia - Come abbiamo già detto, non tutte le donne sono uguali, quindi bisogna tenere conto anche di una serie di altre caratteristiche che si intersecano con il genere: l’età, l’abilità o la disabilità, l’identità sessuale, il background religioso, quello etnico, eccetera». Insomma il gender mainstreaming può essere uno strumento molto utile nei processi decisionali top-down, ma «Bisogna guardare anche molto ai processi bottom-up, ai processi dal basso. Nelle città, che sono crogioli di fermento culturale e politico, ci sono già una serie di processi dal basso molto interessanti che non dovremmo sottovalutare, penso per fare un esempio ai teatri occupati. Invece di cercare di inventare da zero è essenziale costruire su quello che già c’è».
Un esempio di base da cui si può partire è quello dei rapporti sociali, dell’amicizia. Come dice anche Kern (che nel suo saggio dedica un appassionante capitolo a questo tema, prendendo spunto da narrazioni mainstream che spaziano da Sex and the city a L’amica geniale), le amicizie fanno parte degli strumenti di sopravvivenza urbana, e in particolare quelle femminili modellano anche il modo in cui le donne interagiscono con la città stessa. Certo se da un lato è vero che le grandi città sono ricche di stimoli e opportunità, non è sempre detto che questo tipo di interazioni sociali sia sistematicamente incoraggiato. «Pensiamo ad esempio a Londra: nonostante le apparenze, è una delle città in cui ci sente più soli al mondo. C’è un fattore culturale, sicuramente. Ma ci sono altre circostanze che influiscono, per esempio il fatto che è una città dove si vive per periodi brevi, in cui si va e si viene continuamente. E poi ci sono cause su cui si può e si deve intervenire politicamente: una tra tutte, il livello assolutamente folle dei prezzi del mercato immobiliare. Molto spesso le persone (soprattutto quelle giovani o in condizioni di vulnerabilità economica) si trovano a vivere in periferia, in zone molto lontane e poco servite, che certamente non favoriscono la socialità. Ancora una volta, si tratta di pensare le città tenendo conto delle esigenze di tutti, soprattutto delle categorie più marginalizzate».
Lilia Giugni è attivista femminista, ricercatrice presso il Centro Studi di Innovazione Sociale dell'Università di Cambridge, e co-fondatrice e direttrice del centro studi GenPol- Gender & Policy Insights. Si occupa di questioni di genere e giustizia sociale, ed è una Fellow della Royal Society of Arts. Lilia collabora con diverse testate italiane e internazionali, siede nel board di svariati network e gruppi femministi, e si adopera per creare contaminazioni tra diverse forme di mobilitazione sociale. Il suo lavoro di ricerca si concentra sulla violenza di genere e sulle interconnessioni tra potere patriarcale ed altri sistemi di oppressione.
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